domenica 27 dicembre 2009

Finalmente m'è arrivato il disco della band corrispondente alla "T" dei "W.E.T.", i rocker svedesi Talisman. Scusate per l'attesa e sotto con storia della band e recensione di questo piccolo capolavoro rispondente al nome di "Humanimal"!
I Talisman nascono nella metà degli anni '80 per volontà del bassista Marcel Jacob, che ha lavorato assieme ad artisti del calibro di Yngwie Malmsteen e John Norum.
Assoldato il grande Jeff Scott Soto al microfono (gli altri membri della band non sono mai stati fissi, praticamente; per ulteriori informazioni andate qui), i Talsiman nel 1990 danno alle stampe il loro omonimo debutto: grazie a canzoni come "Break Your Chains" ed "I'll Be Waiting" la band inizia a farsi un nome e, nonostante l'album sia ottimo, ancora non si intravede un sound originale e preciso. Nel successivo "Genesis" del 1993 invece si iniziano ad affinare le caratteristiche vincenti del gruppo, che però esploderanno in tutta la loro potenza solo nel successivo "Humanimal". Avrete notato quel "part 1 & 2" nel titolo della recensione: l'album per il mercato giapponese fu rimaneggiato e alcuni pezzi presenti nell'originale furono sostituiti con delle canzoni originariamente scartate (i Talisman registrarono e mixarono ben 22 canzoni in 22 giorni!). Successivamente, oltre all'album principale, è stato fatto uscire la "Part 2" contenente le canzoni extra del mercato giapponese e, recentemente, l'album è stato ristampato in due dischi che contengono entrambe le parti.
Dicevamo della svolta nel sound: lasciandosi alle spalle echi talvolta pomposamente malmsteeniani, i Talisman ci propongono un hard rock fresco, frizzante, a tratti funk e dalla melodicità di sicura presa grazie a dei ritornelli perfetti.
In apertura al disco uno troviamo la favolosa "3233 + Colour My XTC" (dove "XTC" sta per "Ecstasy", se leggete le lettere con la pronuncia inglese) col suo delizioso arpeggio che ben presto sfocia in un funk 'n' roll di primissima qualità.
"Fabricated War" è molto più orientata verso il rock classico, ma non per questo è meno riuscita, ricca com'è di carica adrenalinica.
Groove a palate con "Tainted Pages", caratterizzata da ritmi più ragionati che permettono di cogliere tutte le sfumature di un pezzo frizzante e allo stesso tempo, in un certo senso, più cupo.
"TV Reality" spiazza sin dalla particolarissima partenza e dopo l'intro dirompe in tutta la sua potenza. Per fare un paragone, ricorda alcuni pezzi dei Living Colour (non sapete chi sono?! Vergogna! Filate a comprare i loro primi tre album!).
"Seasons" è un concentrato di emozioni incorniciato da un riff maturo costruito ad arte.
E' l'ora della ballata con "All+All", ovviamente dolcissima e pienamente nei canoni del genere rock ballad. Plauso a Soto per l'interpretazione vocale molto articolata e mai scontata.
Ci rituffiamo a piombo nel funk più sessuale ascoltando "D.O.A.P.S.", carica come una molla ed esplosiva nel suo assolo semplice e diretto.
Se nei Talisman c'è anche un po' di cattiveria, di sicuro è pienamente rappresentata da "Blissful Garden", oscura e trascinante, nonché uno degli episodi più originali del disco.
"Lonely World" scoppia a tutta birra dando un ottimo esempio di mix bilanciato fra rock veloce, A.O.R. e funk. Esaltante.
Con "Delusion Of Grandeur" siamo su livelli altissimi che rivelano in toto le incredibili capacità compositive e l'inventiva della band.
"Since You've Gone" è ovviamente la seconda ballad, acustica, più triste e decisamente più riuscita di "All+All".
"Humanimal" fa venire subito (ma proprio subito subito) in mente gli Scorpions. E, diamine, non è un male! Il pezzo è super carico e decisamente azzeccato.
In chiusura del primo CD, cambio TOTALE di genere con la seguente "Doin' Time Wit' My Baby", una classica ballata rockabilly divertente e, nell'ambito del disco, rinfrescante.
La seconda parte si apre con l'hard rock trascinante di "Animal Ritual", più 'standard' rispetto a quanto sentito finora, ma anche pezzo fra i più riusciti.
Prendete fiato per leggere il prossimo titolo: "You Cannot Escape From The Revelation Of The Identical By Seeking Refuge In The Illusion Of The Multiple" è un mid-tempo semi acustico ricco di sorprese che in due minuti fulminanti di mistura 'rock veloce-rock ballad-outro funk' vi introduce alla seguente "My Best Friend Girl", concentrato di solarità ad alto impatto.
Con "Dear God" ci si rivolge a Dio in modo semplice e trascinante, per poi passare a "Hypocrite", adrenalina pura ed ennesimo centro di questo fantastico album.
"Wasting R Time" non è una semplice canzone, è classe. Punto. E meno male che l'avevano scartata dall'album!
Altro titolo interminabile con "To Know Someone Deeply Is To Know Someone Softly", ballad anomala (e decisamente non perfetta) dal feeling vagamente etnico.
Si chiude con la tanto leggera quanto piacevole "Todo Y Todo".
Nel 1996, dopo una travagliata gestazione dovuta a problemi di mixing e di etichette, i Talisman pubblicano il valido "Life", album seguito da una pausa di tre anni in cui ogni membro ha perseguito i suoi interessi musicali e non. In questo periodo i Talisman non hanno supportato l'album con un tour, eccetto che aprendo alcuni concerti per Malmsteen.
Nel 1998 vede la luce"Truth", che contiene diverse cover (“Darling Nikki” di Prince, “Let me entertain you” dei Queen e “Frozen” di Madonna, che ottenne molto successo nei club tedeschi. Mah.) a cornice di un altro bel disco. Ancora niente tour di supporto.
Dopo parecchi casini che non vi sto a raccontare i Talisman pubblicano l'ottimo "Cats And Dogs" nel 2003 e il loro ultimo disco, "7" nel 2006.
Ad oggi la band si è sciolta e il 90% delle possibilità di reunion sembrano stroncate dopo il suicidio del quarantacinquenne Marcel Jacob (il 21 Luglio 2009), afflitto da problemi personali e di salute.
Suicidio che si va ad aggiungere alla lunga lista di morti e suicidi illustri avvenuti nel mondo del rock negli ultimi due anni (ricordiamo fra tutti Kevin DuBrow, cantante dei Quiet Riot morto d'overdose, e Pepsi Tate, bassista dei Tigertailz stroncato da un cancro al pancreas).
L'unica cosa che può consolare è che la vita è fugace, mentre la musica è eterna. E per fortuna questi artisti ci hanno lasciato tanta buona musica.
venerdì 25 dicembre 2009

Auguro un merry fuckin' Xmas a tutti i miei lettori e a tutti i rocker e i mettallari! Rimanete sintonizzati nei prossimi giorni perché sono in arrivo nuove recensioni: i tanto sventolati Talisman e piacevoli nuove sorprese nel campo dell'hard rock e dell'A.O.R.! |m/- ROCK ON!
mercoledì 25 novembre 2009


Cerco collaboratori che si occupino di recensioni metal estreme (death metal, black metal ecc.).
Come avrete capito dalle recensioni postate finora, non mi intendo molto del metallo veramente pesante. Perché? Semplicemente perché non mi coinvolge, non mi piace. Arrivo fino al thrash, agli Slayer, ai Sepultura, ma oltre (Mayhem, Dimmu Borgir,...) non me ne intendo.
Quindi cerco collaboratori che si occupino di questi generi più estremi, per amore di completezza e anche perché, pure volendo, non potrei coprire tutte le recensioni di tutte le uscite da solo.
Per partecipare, scrivete una recensione di metal estremo e inviatemela all'indirizzo vitoner@hotmail.it con oggetto "partecipazione al blog".
Valuterò e vi farò sapere.
Grazie a tutti!
lunedì 23 novembre 2009

Proseguiamo ad analizzare le origini dei W.E.T. analizzando la "E.". E' la volta degli Eclipse, svedesi come i Work Of Art e come loro sotto contratto con la Frontiers. Stavolta però il sound preso in esame è decisamente più duro e diretto: scordatevi Journey e Toto, stavolta le prime cose che vengono alla mente sono Bon Jovi, Europe, Whitesnake, insomma tutto l'hard rock più duro e diretto.
Erik Martensson (voce, chitarra, basso e tastiere! Poi anche nei W.E.T.), Magnus Enriksson (chitarra), Johan Berlin (tastiere) e Robert Back (batteria) esordiscono nel 2001 con l'autoprodotto e direttissimo "The Truth And A Little More", vengono notati dalla Frontiers che li mette sotto contratto e gli fa pubblicare "Second To None" nel 2004, che però si rivela di minore levatura pur essendo un album gradevole.
Nel 2008 arriva "Are You Ready To Rock". Cazzo se sono pronto! Con un album del genere, poi! Rispetto al lavoro precedente si preferisce schiacciare l'acceleratore piuttosto che puntare esclusivamente sulla melodia, e come risultato si hanno undici canzoni semplicemente da pazzi! Davvero, si potrebbe estrarre un singolo con ogniuna di esse! Martensson ha una voce spettacolare, capace di regalare sempre la sensazione giusta al momento giusto come solo i grandi cantanti sanno fare, Enriksson ci dà dentro come un pazzo, Back picchia sodo e Berlin vi avvolgerà con i suoi tappeti melodici.
"Breaking My Heart Again" è semplicemente da orgasmo. Riffone hard rock degno dei migliori anni ottanta, assolone e chiusura collegata con la martellante "Hometown Coming", secondo spettacolare episodio a base di grandi cori, ritornello strapa orecchie e di nuovo un riff bruciante. Solo spot carico di adrenalina in cui Enriksson ricorda molto Malmsteen, ma per fortuna risulta meno orpelloso.
"To Mend A Broken Heart" porta subito alla mente gli Europe, pur discostandosene con un riff decisamente granitico che fa esplodere la sua carica in un ritornello fantastico studiato per i concerti.
"Wylde One" è un'esplosione di adrenalina a duecento all'ora di quelle che ti fanno scapocciare dal primo all'ultimo secondo. Mi è venuta anche voglia di birra! Mentre la vado a stappare parte "Under The Gun" (e basta con questo titolo! Oramai è inflazionato!), incipit classicheggiante simil vinile e deflagrazione devastante che prorompe nel riff più malmsteeniano dell'album. Una cavalcata epica condita da un ritornello epico e farcita di assoli molto vecchio stile.
Groove a manetta e chitarrone heavy per "Unbreakable", molto più melodica rispetto alle canzoni precedenti. Un gradito rallentamento che permette di riorganizzare le idee, anche se come risultato complessivo ci siamo a metà.
Si riparte in picchiata al ritmo forsennato di "Hard Time Loving You", che non dà nemmeno il tempo di respirare tanto è serrata e compatta. Da notare l'assolo 'impazzito' che richiama alla mente la N.W.O.B.H.M. con le sue twin guitars che si inseguono e si intrecciano.
Colpi d'arma da fuoco ci introducono a "Young Guns", movimentata e dalle atmosfere a metà fra Europe e il Malmsteen di "Eclipse", ma con un riffing decisamente più moderno. Il ritornello ricorda anche band come Danger Danger, giusto per chiarire di che tipo di sound stiamo parlando. Confusi, eh? Come sono perfido.
"Million Miles Away" torna sul classico hard rock melodico, rivelandosi trascinante ed ispiratissima, uno degli episodi migliori dell'album, così come la bellissima "2 Souls" col suo riff semplicemente magnifico e il suo ritornello realizzato ad arte.
Si chiude il sipario con "Call Of The Wild", pezzo che vanta il riff d'apertura più geniale di tutto il disco e riesce ad esaltare l'ascoltatore fino all'ultimo millesimo di secondo.
Ora sì che si inizia a capire da dove è uscito "W.E.T."! Alla prossima per la recensione dell'ultima lettera dell'acronimo con i Talisman!

Dopo la recensione del capolavoro dei W.E.T., mi pare doveroso analizzare i gruppi che hanno fornito le lettere dell'acronimo. Iniziamo ovviamente dalla "W." con gli svedesi Work Of Art, nati nel lontano 1992 per volontà del chitarrista chitarrista Robert Säll (che ha partecipato al progetto W.E.T.) e del batterista Herman Furin. Con in mente un melodic rock ispirato a Journey e Toto, i due cercano disperatamente un cantante adatto alla loro visione. Il produttore Lars Säfsund, dopo aver sentito alcune delle canzoni di “Artwork” decide di prestare la sua voce stupenda al progetto. Il pregio di questo disco d'esordio (ci hanno messo sedici anni... complimenti per la perseveranza!) non è certo l'originalità, a dire il vero potrebbe essere benissimo un disco di Lukather e soci, ma la maestria compositiva e il coinvolgimento che donano le dodici canzoni durante cinquantadue minuti vorresti non finissero mai.
"Why Do I?" apre il disco nel migliore dei modi: melodica, potente, magica, immediata e indimenticabile. Meglio non era possibile. Davvero. Mi ha steso. Wow.
Segue una "Maria" romantica e sognante, debitrice per l'eternità a una certa "Georgy Porgy", ma ancora una volta capolavoro.
"Camelia" prosegue nella stessa direzione col suo riff funkeggiante e il suo tappeto di tastiera che fa la differenza, per poi esplodere nel ritornello smaccatamente... Toto. Se ancora non l'avete capito, questi ragazzi ne sono la reincarnazione.
Dopo due mid tempo si arriva alla cavalcata di "Her Only Lie", travolgente con la sua energia. Ritornello memorabile che si stampa in mente subito subito.
Madonna che cos'è "Too Late"! Dopo l'opener il miglior episodio del disco! Riff decisamente più originale rispetto alle tracce precedenti e feeling a go go. Spettacolare.
Parte soffusa e d'atmosfera la canzone più smaccatamente 'ispirata' ai Toto, "Whenever U Sleep". Il pianoforte, seppur relegato in secondo piano rispetto alle chitarre, la fa da padrone e i Work Of Art ci regalano un altro pezzone.
Era l'ora della ballatona, piazzata con maestria e semplicemente irresistibile. "Once In A Lifetime" è come una carezza fatta con un petalo di rosa (non avrei mai pensato di scrivere una roba del genere prima di aver sentito 'sta canzone!), romanticissima e, ancora una volta, perfetta.
Segue la rocambolesca "Peace Of Mind" che sarebbe potuta tranquillamente essere la colonna sonora di un Rocky a caso! A tratti progressive (poco) e a tratti da stadio (molto), coinvolge alla grande.
Largo al rock più massiccio con "Lost Without Your Love", dove per la prima volta mi sento di dire che la tastiera penalizza il risultato complessivo della canzone, andando a coprire eccessivamente un riff veramente bello, soprattutto durante il riff. Rimane lo stesso un pezzo ottimo, pur con questa piccola pecca.
Cori a palla in apertura alla funky song "Like No Other", spumeggiante episodio che ci rivela una volta per tutte la maestria di questi tre ragazzi svedesi.
"Cover Me" è una rock song a tutti gli effetti, mettendo da parte il lato più A.O.R. che è venuto fuori finora e sprigionando tutta l'energia del trio.
Dopo questa botta di adrenalina si chiude con "One Hour", vagamente orientaleggiante e dalla struttura che spiazza, visto che apre con un riffone cattivo, si placa con una strofa dolce e, a modo suo, sperimentale ed esplode finalmente in un riff esaltato dalla voce di Säfsund.
Il miglior pregio dei Work Of Art è la maestria compositiva degna degli inarrivabili Toto, il peggior difetto è che sembrano non avere una propria identità definita, rifacendosi fin troppo alla band di Lukather e rischiando di finire etichettati come cloni. Cloni ben riusciti, ma sempre cloni.
Critiche a parte, i Work Of Art hanno classe, stile, insomma hanno le palle cubiche.
Se fossero riusciti ad esordire prima del 2008 probabilmente oggi sarebbero un nome di rilievo della scena A.O.R. europea e, perché no, mondiale.
domenica 22 novembre 2009

Ennesimo supergruppo nell'esercito della Frontiers, i W.E.T. sono composti da Robert Sall, chitarrista dei Work Of Art (ovvero la "W." del nome), Erik Martensson, bassista degli Eclipse (la "E.") e niente di meno che Jeff Scott Soto, che ha prestato la voce a innumerevoli artisti (Journey, Panther, Trans Syberian Orchestra, Takara, Human Clay, Axel Rudi Pell, Humanimal, Yngwie Malmsteen, Eyes,...) e ultimamente milita nei Talisman (la "T.").
Questo primo lavoro dei W.E.T. si rivela la sorpresa dell'anno, uno di quei dischi che non ti aspetti e che ti stendono sin dal primo ascolto. Certo, troverete sempre in giro i soliti criticoni che volevano di più, che se la prendono con l'eccessiva modernità del sound, che boicottano i W.E.T. per il solo status di super gruppo.
Lasciateli perdere, "W.E.T." è un disco di hard rock melodico classico, ma ovviamente aggiornato agli standard odierni per quanto riguarda il sound e la produzione. L'esecuzione tecnica è superba, ma la tecnica è asservita totalmente al songwriting senza mai scadere in sbrodolamenti solisti. I W.E.T. sono una band, e il fatto di essere composti da tre forti individualità non pregiudica il risultato finale, che ne esce fuori compatto ed omogeneo.
"E' il disco che avrei realizzato coi Journey se fossi rimasto con loro", questa dichiarazione di Soto riassume benissimo quello che ho cercato finora di spiegare con mille parole.
E' incredibile come un progetto nato in sordina e quasi per scherzo si sia rivelato la pietra miliare dell'A.O.R. di annata 2009.
Lasciatevi rapire dalla classe della copertina e schiacciate play, basteranno i primi tre pezzi per farvi capire il valore di questo album, altrimenti, se siete dei pignoli come il sottoscritto, siete avvertiti: non fermatevi al primo ascolto superficiale, la bellezza del disco vi apparirà in tutta la sua maestosità dal terzo in poi. Non che il disco sia difficile da comprendere, ma le sfaccettature del progetto sono molte. Analizziamole assieme.
"Invincible" è impossibile da non cantare a squarciagola, con la sua stesura ritmica non indifferente e la sua componente sinfonica che contribuisce a trascinare l'ascoltatore in un vortice la cui ciliegina sulla torta è l'assolo tanto semplice quanto raffinato, dalle tinte quasi classicheggianti. A proposito, ma da quanto tempo Soto non cantava così bene? Bentornato Jeff!
Segue il singolone "One Love" che, non vi preoccupate, non è una cover né degli U2 né dei Blue, ma una ballad semiacustica semplicemente travolgente che sa moltissimo di Journey. Una delle canzoni più belle mai cantate da Soto. Il ritornello è semplice semplice, ma dalla presa immediata.
"Brothers In Arms" ha un riff originale e un chorus fantastico che candidano la canzone alla palma di migliore episodio dell'album. Movimentata e d'atmosfera, insomma semplicemente perfetta.
Finita la tripletta bruciante di partenza, segue "Comes Down Like Rain", power ballad che permette di riprendere fiato con il suo ampio respiro e le sue atmosfere ovattate che solo nel ritornello cedono il passo a un'esplosione di sentimento da veri maestri.
"Running From The Heartache" è l'ideale fusione di Journey e Talisman. Ancora una volta atmosfera a palla di quelle che basta chiudere gli occhi per immaginarsi sul palco a cantare davanti a migliaia di persone. Non fatelo in macchina, potrebbe essere pericoloso.
Spettacolare anche "I'll Be There", nella quale si aumentano i ritmi ottenendo un pezzo che avrebbe fatto invidia ai migliori Danger Danger!
Per non parlare di "Damage Is Done"! Chitarre heavy e delicatissimo pianoforte vi introdurranno a un bridge cadenzato e a un chorus molto Europe. Pazzesco, siamo alla settima canzone e non c'è nemmeno l'ombra di una battuta di arresto! Non c'è una nota fuori posto, non c'è una canzone che non coinvolge o che non trascina!
Infatti si procede con la scoppiettante "Put Your Money Where Your Mouth Is", che ci mostra un Soto finalmente un po' più "incazzato" che ci accompagnerà nella traccia più classicamente hard rock di tutto il disco.
"One Day At A Time" è anch'essa una power ballad da far drizzare i peli, stavolta dal sapore molto Gotthard, per capirci. Tenete a portata di mano la morosa/il moroso o, se siete al concerto, glli accendini. Sconsigliatissima a chi si è appena lasciato con il fidanzato/la fidanzata.
Si torna a macinare hard rock con la bellissima "Just Go", sinfonica ed epica col suo riff a metà strada fra il primo Malmsteen e, ancora una volta, i Journey, ma con tanta energia in più.
"My Everything" vi scioglierà con le sue linee melodiche incantevoli e con l'incredibile prestazione di Soto. Se fosse uscita una trentina di anni fa probabilmente oggi sarebbe un classico che ha scalato le classifiche di tutto il mondo.
Chiusura affidata alla power ballad "If I Fall", di chiara matrice Journey sin dalle prime note. Diciamo che la dichiarazione di Soto citata prima era azzeccatissima.
Nemmeno una canzone brutta. Finalmente un 'appetite' (per chi non capisse, andatevi a leggere le prime righe della recensione di "Chinese Democracy" dei Guns N' Roses, pubblicata in maggio 2009).
Miglior disco del 2009? Forse. Miglior disco hard rock/A.O.R. del 2009? Sicuramente.
Fiondatevi a comprarlo, prima che finisca.
domenica 15 novembre 2009

E puntualmente eccoci qui con la recensione dell'ultimo live dei Mr. Big, l'esplosivo “Back To Budokan”, album celebrativo della reunion tanto attesa (edito dalla partenopea Frontiers, ormai attivissima nel campo del rock classico).
C'è poco da aggiungere rispetto a quanto detto nella recensione di “Lean Into It” per quanto riguarda notizie e curiosità. Il bassista Billy Sheehan in un'intervista a Metal Maniac ha raccontato di come la band abbia voluto aspettare il momento giusto per tornare insieme, facendolo nell'unico momento in cui non erano pressati dalle major. Gli antichi screzi fra i membri del gruppo avrebbero potuto riaccendere i vecchi fuochi che portarono allo scioglimento della formazione originale (con Paul Gilbert alla sei corde) se questa reunion non fosse nata nel modo più naturale possibile. Il disco che avete (o avrete) fra le mani è il frutto di jam session informali a cui hanno partecipato anche altri musicisti, fra cui Richie Kotzen, che aveva rimpiazzato Gilbert, e cene faccia a faccia per parlare del futuro del “Sig. Grande”. Sarà che ormai l'acqua è passata sotto i ponti, sarà che i quattro sono maturati nel frattempo, sarà quello che vi pare, il risultato è un live spettacolare per esecuzione e scelta della scaletta. Registrato in quel Budokan di Tokyo che aveva visto la loro ultima esibizione, questo ritorno non risulta totalmente perfetto, ma solo perché i Mr. Big hanno registrato nulla più che una esibizione spontanea e genuina, senza sovraincisioni: c'è la musica, c'è il pubblico ed è quanto basta. Non prendete le piccole imperfezioni (in realtà pochissime) come un pretesto per 'declassare' il disco, ma come l'umiltà di presentarsi al grande pubblico per quel che si è.
I grandi classici ci sono tutti, sparsi per i due lunghissimi CD, e c'è addirittura una sfavillante luce di speranza per il futuro, che ogni fan apprezzerà certamente: due nuovi pezzi proposti sia in sede live che in versione studio. “Hold Your Head Up” è moderna e allo stesso tempo ricorda il passato col suo riff molto Van Halen e il suo ritornello da stadio decisamente originale. Se fate parte degli irriducibili bacchettoni che non apprezzano la freschezza compositiva, non vi preoccupate, per voi c'è “Next Time Around”, classica a dir poco e che lascia promettere scintille nel caso di un nuovo album in studio (Sheehan ha detto che dopo la conclusione del tour vedranno come procedere).
Per quanto riguarda il resto dei pezzi dal vivo, non c'è che l'imbarazzo della scelta: date un'occhiata a fine recensione per la tracklist completa.
Sono presenti anche i classici 'solo spots' in cui Billy Sheehan, Paul Gilbert e Pat Torpey si esibiscono in tutta la loro mostruosa bravura. Segnalo soprattutto l'assolo di batteria di Torpey: è incredibile come riesca a portare un ritmo assurdo con le gambe, un altro ancor più assurdo con le braccia e a cantarci pure sopra! Semplicemente pazzesco. Non che gli assoli di basso e chitarra siano di minor levatura, ma le capacità di Sheehan e Gilbert sono certamente più di... 'dominio pubblico', concedetemi l'espressione.
Da segnalare anche una cover di “Baba O'Riley” (dei Who) decisamente sopra le righe.
Un live spettacolare che ci restituisce dei Mr. Big in forma smagliante e lascia intendere promettenti sviluppi futuri: che volete di più?

Tracklist:
CD 1
01 - Daddy, Brother, Lover, Little Boy (The Electric Drill Song)
02 - Take Cover
03 - Green-Tinted Sixties Mind
04 - Alive And Kickin'
05 - Next Time Around
06 - Hold Your Head Up
07 - Just Take My Heart
08 – Temperamental
09 - It's For You – Mars
10 – Pat Torpey Drum Solo
11 – Price You Gotta Pay
12 – Stay Together
13 – Wild World
14 – Goin' Where The Wind Blows
15 – Take A Walk

CD 2
01 – Paul Gilbert Guitar Solo
02 – Paul Gilbert & Billy Sheean Duo
03 – Double Human Capo
04 – The Whole World's Gonna Know
05 – Promise Her The Moon
06 – Rock & Roll Over
07 – Billy Sheehan Bass Solo
08 – Addicted To That Rush
(Encore 1)
09 – Introducing The Band
10 – To Be With You
11 – Colorado Bulldog
(Encore 2)
12 – Smoke On The Water
13 – I Love You Japan
14 – Baba O'Riley
15 – Shy Boy
Bonus Tracks:
16 – Next Time Around (Studio version)
17 – Hold Your Head Up (Studio version)
18 – To Be With You (Acoustic version)
lunedì 9 novembre 2009

Decimo album in studio per i Queensrÿche, seminale band di Seattle autrice del capolavoro "Operation: Mindcrime", recensito qualche tempo fa su questo blog.
Anche stavolta abbiamo in mano un concept album (ancora?! Baaaasta!) incentrato sull'esperienza dei soldati americani: il cantante Geoff Tate negli ultimi anni ha intervistato veterani che furono coinvolti in conflitti che vanno dalla seconda guerra mondiale al recente Iraq, per poi tradurre in musica queste, spesso toccanti, testimonianze. Così Tate spiega l'origine dell'idea: "La prima cosa in assoluto è stata una conversazione con mio padre. Mio padre è stato nell'esercito e ha tutta questa esperienza accumulata nei luoghi in cui ha prestato servizio: Korea, Vietnam... Abbiamo parlato della sua vita nell'esercito. Susan, mia moglie, una volta mi ha chiesto 'Perché non scrivi una canzone su tuo padre?'. Così, quando abbiamo iniziato a parlare della vita nell'esercito ho iniziato a pensare ai soldati americani, perché non sappiamo molto di loro, del modo in cui si sentono riguardo un sacco di cose...".
Insomma, ogni canzone rappresenta una diversa tstimonianza di un diverso soldato intervistato.
Si parte con un sergente che ci strilla nelle orecchie un "IN PIEDI!" nella canzone d'apertura "Silver", concentrata e a fuoco, trattante il tema dell'arruolamento e dell'addestramento dei soldati.
Una sirena e il rumore degli elicotteri ci introducono a "Unafraid", a tratti indutrial a tratti molto classica, ricca di spezzoni di intervista e volta a spiegare lo stato mentale in cui volge il soldato in guerra per non impazzire.
Lo sguardo concentrato e al contempo vuoto dei soldati che avanzano nel territorio nemico è magistralmente descritto in "Hundred Mile Stare", canzone musicalmente egregia come non se ne sentivano da tempo composte dai Queensrÿche.
Con "At 30,000 FT" ci troviamo su un aereo, in procinto di buttarci col paracadute: nessuna emozione, ogni cosa è fuori dal nostro controllo e sentiamo solo il nostro respiro nella maschera che indossiamo. La sensazione di tensione è trasmessa magistralmente da un tappeto musicale perfetto che sa quando essere d'atmosfera e soffuso e quando essere duro e diretto. Toccante il verso finale "Sono il creatore di questa nuova terra promessa e mi chiedo 'cosa diavolo ho fatto?'. Sono in aria sopra di essa. Ci sto sopra."
"A Dead Man's Words" sono le angoscianti parole di un soldato ferito, dato per morto e lasciato indietro nel deserto. La seconda metà della canzone descrive in modo semplicemente perfetto il recupero di questa persona, facendo capire chiaramente la disperazione e al contempo la voglia di sopravvivere del soldato con un heavy metal pregiato e di alto livello, impreziosito da tinte orientaleggianti che dipingono nella mente l'immagine di un deserto infuocato e impietoso.
"The Killer" è uno dei pezzi meglio riusciti e al contempo uno dei più disturbanti all'ascolto: i temi trattati sono la morte dell'ultimo figlio per la madre disperata e l'istinto di sopravvivenza che stride con l'orrore del soldato che vuole sopravvivere al cecchino che gli spara addosso, con le urla che riecheggiano ("Sparagli!") mentre rimane steso a terra impietrito e immobile.
Altro capolavoro con "Middle Of Hell", che descrive lo spaesamento di un soldato che si ritrova in guerra e nonostante comprenda che molti moriranno, si convince che lui ce la farà, ripetendoselo all'infinito. Assolo ispiratissimo per un mid tempo carezzato dalla carismatica voce di Tate. Eddie Jackson e Scott Rockenfield, rispettivamente basso e batteria, stendono un tappeto ritmico che non avrebbe sfigurato su un grande album come "Promised Land" (1994): la canzone infatti ricorda molto proprio quel capolavoro di title track.
La bellissima "If I Were King" (gran lavoro di chitarra per Michael Wilton!) esprime il senso di colpa per essere sopravvissuto di un soldato che vorrebbe riportare in vita i commilitoni che hanno dato la propria vita anche per salvare la sua. Ancora centro.
La pesantissima "Man Down!" dipinge prima la speranza di un soldato colpito che aspetta i rinforzi. Quando non arrivano però si rende conto di essere solo un numero e inizia a dubitare della cavalleria, che arriva in extremis, salvandolo, ma lasciandolo mentalmente turbato per il resto dei suoi giorni.
"Remember Me" è la struggente lettera d'amore di un soldato che prega la sua donna di aspettarlo, promettendole che non la lascerà mai più e che saranno felici per sempre, il tutto con la solita maestria musicale che caratterizza il sound dei Queensrÿche.
"Home Again" è anch'essa una lettera, ma stavolta 'doppia', dal padre alla figlia e dalla figlia al padre. Ballad spettacolare, originale e struggente in cui Geoff Tate duetta con la sua figlia di dieci anni, Emily.
Questo album praticamente perfetto si chiude con "The Voice", che parla di un soldato che si rende conto di essere ormai a casa, fuori pericolo, ma continua a sentire "la voce" nella sua testa, ad indicare il suo equilibrio mentale distrutto per sempre dall'esperienza traumatica della guerra.
Un album che si eleva dalla semplice definizione di "musica" per toccare le vette della vera e propria "arte", grazie anche al forte messaggio che porta coi suoi testi ispirati e le sue trame musicali che diventano colonne sonore di esperienze di vita vissuta. Probabilmente non troverete il singolone stile "Operation: Mindcrime", ma, dopo uno scivolone quale "Operation: Mindcrime II", avete finalmente fra le mani la vera essenza dei Queensrÿche, gruppo capace di stravolgere i canoni dell'heavy metal, trascendendo la condizione di meri esecutori materiali di un genere che ormai ha detto praticamente tutto quello che valeva la pena dire e non solo ed elevandosi ad artisti a tutto tondo che riescono a trasmettere un messaggio duro e scomodo soprattutto alle nuove generazioni che (prevalentemente nelle zone povere dell'America) vedono l'esercito come una fonte di sostentamento obbligata.
Insomma, citando i Queensrÿche stessi, i ricchi rimangono ricchi e i poveri rimangono poveri.
Band talentuosa? Ormai lo hanno dimostrato. Band scomoda? Decisamente.
Viva i Queensrÿche.
Abbasso il potente.

A volte ritornano. A volte fanno di nuovo centro. A volte.
Settimo album in studio per i Danger Danger e ritorno alla voce per il frontman storico Ted Poley che sostituisce il (più?) bravo Paul Laine.
Rilasciato esattamente venti anni dopo la release del loro debutto, "Danger Danger", "Revolve" vorrebbe segnare un ritorno alle origini del sound sessuale e trascinante dei bei tempi andati. Purtroppo Ted Poley non è più vocalmente fresco come una volta e, soprattutto, manca l'elemento fondamentale che rendeva il gruppo capace di stracciare la concorrenza, quell'Andy Timmons che magistralmente interpretava e impreziosiva le composizioni del bassissta Bruno Ravel. Guarda caso i tre album migliori della carriera dei Danger Danger sono proprio quelli dove compare Timmons ("Danger Danger" del 1989, "Screw It!" del 1991 e "Cockroach", rilasciato postumo nel 2001 per problemi burocratici). Steve West picchia ancora come ha sempre fatto e Rob Marcello (primo lavoro nei Danger Danger per lui) ci sa fare con la sei corde, pur non essendo al livello del genio che lo ha preceduto.
Intendiamoci bene, i Danger Danger ci sono ancora e sanno ancora comporre ottime canzoni, fresche e orecchiabili, ma lo smalto di un tempo è ormai andato, lo si capisce sin dalla prima traccia, "That's What I'm Talking About", che potrebbe essere tranquillamente un outtake dallo scialbo disco solista "Smile" (2006) di Ted Poley.
Si prosegue con la decisamente più ispirata "Ghost Of Love", forte di un riff credibile e di un ritornello stavolta davvero ispirato.
Segue la strana "Killin' Love", triste ed autunnale col suo pianoforte malinconico, che, diciamocelo, dopo otto anni di attesa, non è proprio quello che si voleva dalla band. Sembra quasi che volessero imitare il feeling di quel capolavoro che era "Sick Little Twisted Mind" dell'album precedente, riuscendoci solo a metà. Danger Danger e tristezza non vanno bene insieme, vogliamo il casino!
"Hearts On The Highway" ci accontenta riportando alla mente proprio la band che ci è rimasta impressa a fuoco! Probabilmente se fosse uscita venti anni fa, ora sarebbe un classico, col suo chorus trascinante e il suo riff ruffianissimo (scusate il gioco di parole)!
"Fugitive" è la prima ballad, semplice e quasi scontata, non convince e non regge il confronto con l'ingombrante passato.
Si accelera di nuovo con "Keep On Keepin' On", solare ma poco ispirata sia a livello di riff principale che di chorus. Smaccatamente easy listening con destinazione TV.
Una semi ballad poco riuscita, ecco cos'è "Rocket To Your Heart". Sembra composta da una qualsiasi delle band di ragazzini emo che ci appestano le orecchie in questo buio periodo musicale. Oddio, vabbè, non esageriamo. Non è emo, ma comunque fa cagare.
"F.U.$", ovvero "Fuck You Money", racconta l'odio dei Danger Danger verso il denaro che tanto ne ha condizionato la carriera. Il testo decisamente condivisibile salva solo in parte un brano affossato dalla banalità. Peccato.
Si torna finalmente alla carica con "Beautiful Regret": partenza scoppiettante e svolgimento in pieno stile primi Danger Danger, peccato che sappia di già sentito a mezzo kilometro.
Finalmente con "Never Give Up" ci lasciamo trascinare dalla prima ballad degna di questo nome. Ancora niente di trascendentale, siamo lontani anni luce da perle come "I Still Think About You" o "Afraid Of Love".
Con "Dirty Mind", uno degli episodi migliori dell'album, si chiude un lavoro controverso in cui i Danger Danger paiono restare onestamente a galla senza sforzarsi troppo. Spero vivamente che questa battuta a vuoto serva da ricaldamento in vista di un nuovo album che ne segni definitivamente il ritorno col botto.
Nel frattempo se volete divertirvi, ravanate nel vecchio catalogo.

Si intitolerà "No Guts No Glory" ed uscirà il 23 Febbraio 2010 per la Roadrunner.
Ecco le parole degli aussie rocker a riguardo:

"Gli australiani Airbourne sono orgogliosi di annunciare il titolo del secondo album per Roadrunner Records: No Guts, No Glory uscirà ad inizio 2010. No Guts, No Glory è stato registrato a Chicago col noto produttore Johnny K (Disturbed, 3 Doors Down, Staind).

Il frontman Joel O’Keefe dichiara “Lavorare con Johnny è stato grandioso: è uno di noi. Ci siamo limitati a sistemare la strumentazione, collegare i microfoni e suonare! Bei momenti!”. Il batterista Ryan, fratello di Joel, conferma: “Abbiamo messo i microfoni in tutto l’edificio, lasciato le porte e le finestre aperte e schiacciato il tasto ‘REC’!”

Ed ecco a voi le prime date italiane disponibili:
28/2/2010 Estragon, Bologna
1/3/2010 Alpheus, Roma
3/3/2010 Alcatraz, Milano

Per chi vivesse su Marte, "No Guts No Glory" sarà il secondo album in studio per gli Airbourne, a seguire il pazzesco "Running Wild" del 2008, primo album recensito in questo blog.

Buona attesa!
domenica 8 novembre 2009

A tre anni di distanza dal buon "Christ Illusion", gli Slayer ci sbattono in faccia il feroce "World Painted Blood". Quaranta minuti scarsi in cui il muro sonoro dei macellai californiani vi travolgerà senza compromessi, giusto per farvi capire che stavolta non si cazzeggia.
Scritto e registrato in poco più di quattro mesi, l'album è composto da undici canzoni di cui sei composte da Kerry King (chitarra) e cinque da Jeff Hanneman (chitarra). Ricordiamo che dal precedente disco dietro le pelli troviamo Dave Lombardo, tornato dopo diversi anni di pausa dalla band, in cui era stato sostituito dal bravissimo Paul Bostaph. Al microfono come sempre Tom Araya e dietro il mixer l'ormai onnipresente produttore del thrash, Rick Rubin. Il sound non è pulitissimo, anzi è pesante e polveroso come dovrebbe essere. Stiamo parlando degli Slayer, non dei Teletubbies.
Originale l'idea dei continenti composti da ossa per la copertina, suddivisi in quattro copertine diverse, che unite formano la mappa del mondo. Per la serie "evviva i metallari nerd che si comprano quattro volte lo stesso disco per avere la mappa completa".
Vista anche la scarsa facilità di reperire informazioni e curiosità sull'album, passiamo alla recensione.
Si parte subito in quinta con la title track "World Painted Blood", secondo singolo estratto dall'album, col suo riff furioso di chiara matrice Hanneman, esaltato da dei break molto più melodici rispetto al recente passato. Ciliegina sulla torta la voce di Tom Araya, che a mio parere col passare degli anni si fonde sempre meglio col sound della band. Grazie anche al suo assolo allucinato ricorda molto alcuni pezzi classici del periodo anni '80.
Velocità è la parola chiave per definire "Unit 731", e se avete presente il riffing e il drumming furiosi dei bei tempi passati, potete farvi subito un'idea: neanche il tempo di riprendersi dagli assoli incrociati di Kerry e Jeff che finiscono i due minuti e mezzo. E ti senti come se ti fosse passato addosso un tir di cui ovviamente non hai fatto in tempo a prendere la targa.
Non si rallenta nemmeno con "Snuff", un macigno che vi rotola sul collo a tutta velocità, tanto per cambiare. Queste sono le canzoni che ti fanno capire che ormai il metal è libero dalle influenze esterne che lo snaturarono negli anni '90, rendendolo spesso quasi irriconoscibile: moltissimi gruppi stanno tornando alle loro radici e al sound che ha reso grande questo genere.
Segue una spettacolare "Beauty Through Order" che, dopo una partenza molto "Season In The Abyss" (1990)... prosegue proprio come se fosse stata composta per quel grande album! Il ritmo quasi marziale cede il passo solo a metà pezzo a un assolo con conseguente cambio di tempo e di riff semplicemente da oscar. Headbanging assicurato per un probabile futuro classico che sicuramente farà i morti (letteralmente) sotto il palco.
Partenza bruciante anche con "Hate Worldwide", terzo singolo estratto, la colonna sonora metal perfetta per un frullatore, vista la cattiveria che la permea e la velocità di esecuzione.
Il metallo pesante estremo allo stato dell'arte in questo album prende il nome di "Public Display Of Dismemberment", composta da un Kerry King in stato di grazia che concentra praticamente tutte le idee che lo hanno reso famoso nella sua carriera assieme al collega Jeff in due minuti e mezzo bestiali.
"Human Strain" è decisamente permeata da un'atmosfera più elaborata, ma non per questo meno "angosicante", grazie alla sua ritmica martellante e al fantastico cantato di Araya, interprete fondamentale per la riuscita del pezzo.
Sul filone della sperimentale "Jihad" dal platter precedente, Kerry King ci propone "Americon", diversa e più accessibile, verrebbe quasi da dire "commerciale", ma stiamo pur sempre parlando degli Slayer.
Si torna al sound classico con "Psychopathy Red", primo singolo estratto, che definirei con due aggettivi contati: fottutamente geniale. Punto. E' già un classico. Un classico che ti strappa le ossa dal corpo e te le sbriciola in due minuti.
Tornano le atmosfere malate di "Human Strain" con "Playing With Dolls", fatta apposta per sedare (relativamente al sound degli Slayer, ovviamente!) l'ascoltatore in vista della conlusiva "Not Of This God", tornado sonoro concentrato di furia compositiva e odio.
Si vocifera che questo potrebbe essere l'ultimo album degli Slayer. Spero vivamente di no, perchè ci hanno dimostrato ancora una volta chi è che comanda con un album non perfetto ma diretto a un preciso pubblico che vuole esattamente quello che vi ho descritto. Fanculo le sperimentazioni e le contaminazioni, gli Slayer sono unici. Puoi odiarli, puoi amarli, puoi non capirli, ma sono lì e, fidati, anche se non li caghi, prima o poi ti troveranno loro. E' stato così anche per me e lo sarà anche per i metalheads che ancora devono nascere per scoprire capolavori come "Reign In Blood" (1986).



Chi acquisterà l'edizione limitata di "World Painted Blood", godrà anche di un DVD bonus intitolato "Playing With Dolls": trattasi di un cortometraggio molto sanguinolento (realizzato in stile filmati di Max Payne) che ha per colonna sonora le canzoni del disco.
Eccovelo per intero. RIPETO: NON PER STOMACI DEBOLI!!!


domenica 25 ottobre 2009

Inarrestabile Blackie Lawless, che dopo quindici anni di carriera e quattordici studio album, riesce ancora a produrre musica di qualità.
Sì, perché questo "Babylon", album che ruota sulla figura dei quattro cavalieri dell'apocalisse, è il degno successore dell'incredibile "Dominator" del 2007, che fece saltare i fan, ma soprattutto gli scettici, sulle loro sedie.
Dopo un lungo periodo in cui l'ispirazione sembrava avergli voltato le spalle (più o meno da "Still Not Black Enough" del 1995 a "The Neon God, Part 2: The Demise" del 2004) il caro vecchio Blackie, fondatore, leader, cantante e chitarrista dei W.A.S.P., sembra essere tornato per dimostrarci che il suo tempo è ancora lungi dall'essere concluso.
"Babylon" è un lavoro fresco, magari non originalissimo, ma è esattamente quello che ogni fan dei W.A.S.P. può desiderare. Sulla falsariga di "Dominator", Blackie ci propone sette nuove canzoni da urlo, più due cover (maledetto viziaccio delle cover! Ne sono veramente necessarie ben due in un disco con sole sette nuove canzoni?!), che richiamano alla mente quel periodo d'oro della band in cui sfornava capolavori come "The Headless Children" (1989) o il fantastico concept "The Crimson Idol" (1992).
Si parte subito in quarta con l'ispirata "Crazy", in cui il trascinante chorus la fa da padrone, in una hard rock song riuscitissima.
"Live To Die Another Day" è classicamente W.A.S.P.: riff diretto e ritornello strappaorecchie, da cantare in una decappottabile lanciata sulla route 66. Fantastica. Indistinguibile lo stile delle percussioni W.A.S.P.
Epicità è la parola d'ordine di quella cavalcata metallica che risponde al nome di "Babylon's Burning", probabilmente il pezzo migliore dell'album, perfetto dalla prima all'ultima nota e condito da un assolo fantastico.
Segue la prima delle due cover, ovvero "Burn" (originariamente registrata per l'album "Dominator", ma poi esclusa): bella carica, ma di certo per merito esclusivo dei Deep Purple. Molto meglio l'originale.
"Into The Fire" è un mid tempo che vorrebbe risultare evocativo, ma risulta un po' spento a causa della banalità della sua struttura.
Altissimi livelli invece per "Thunder Red", un assalto frontale a base di rock sanguigno e sessuale, dritto in faccia. Fantastica e casinista!
Provate a tuffarvi nei "Seas Of Fire", se ne avete il coraggio. La vostra colonna sonora sarebbe questa grande canzone, stavolta più tendente al metal che al rock, in un crescendo di pathos che culmina in un solo spot stupefacente e in un bridge finale cattivissimo.
L'ultimo pezzo originale è la pazzesca ballad elettrica "Godless Run", veramente da brividi. Da ascoltare a palla soprattutto per i suoi super assoli che riportano alla mente quelle monster ballad di fine anni '80, inizio '90, che ci emozionano ancora oggi.
Si chiude con "Promised Land", cover di Chuck Berry incattivita dai W.A.S.P. fino a renderla quasi irriconoscibile. Evoluzione o cover evitabile? A voi l'ardua sentenza.
Un ottimo album in pieno stile W.A.S.P., che contiene tutti gli ingredienti per essere apprezzato anche in sede live e con l'unica pecca delle cover-riempitivo, chiaro espediente per coprire lo scarso numero di inediti.
I W.A.S.P. saranno il 23 Novembre all'Estragon di Bologna e il 24 Novembre all'Alcatraz di Milano: visti gli ultimi due esplosivi lavori e considerando la spettacolare teatralità dalle tinte horror dei loro spettacoli, fateci un pensierino!
sabato 24 ottobre 2009

Per festeggiarne la reunion propongo la recensione dell'album migliore della all star band chiamata Mr. Big.
I Mr. Big sono infatti composti da quattro mostri, tecnicamente parlando: Eric Martin (voce, canta anche nella sua band, i Twin Dragons), Paul Gilbert (chitarra, suona anche nei Racer-X), Billy Sheean (definito "il Van Halen del basso", ex David Lee Roth e duemila altre band) e Pat Torpey (batteria, ha suonato anche con Chris Impellitteri). Negli ultimi due album della band Gilbert fu sostituito con Richie Kotzen, con conseguente radicale cambio di sound.
I Mr. Big nascono nel 1988, dopo la dipartita di Sheean dalla David Lee Roth band: con l'aiuto del produttore Mike Varney contatta gli altri futuri membri per iniziare un progetto partito con l'intenzione di fare il botto.
La notorietà non arriva subito come sperato e il primo album, il validissimo "Mr. Big" del 1989, sbanca in Giappone, ma stenta a imporsi nel resto del mondo. Il successo in oriente garantisce comunque alla band il ruolo di opener nel tour americano dei prog rocker Rush nel 1990.
Nello stesso anno arriva il disco che sdogana i Mr. Big al grande pubblico, "Lean Into It", caratterizzato da un hard rock (o se preferite "AOR", ovvero "Adult Oriented Rock") semplicemente allo stato dell'arte. L'accattivante copertina ritrae un dettaglio di una foto scattata dopo il deragliamento di un treno nella stazione Gare Montparnasse di Parigi, nel 1985.
L'album contiene due canzoni che ne hanno decretato il successo, diventando famosissime grazie a passaggi in radio un po' dappertutto. Entrerò nei dettagli in sede di recensione.
Apre le danze la famosissima "Daddy, Brother, Lover, Little Boy (The Electric Drill Song)" che, dopo una partenza soffusa, ti colpisce in faccia col suo riff geniale. La vera particolarità della canzone è l'assolo: Paul Gilbert e Billy Sheean a un certo punto iniziano a pizzicare le corde lei loro strumenti con un trapano che monta dei plettri sulla punta! E non è solo una sboronata in studio, lo fanno anche nelle esibizioni live! Quando si dice la precisione e la mano ferma.
Segue la bellissima "Alive And Kickin'", la mia preferita dell'album, classico hard rock che si pone di diritto fra le migliori canzoni del genere.
"Green-Tinted Sixties Mind" parla di una ragazza che vive come se si trovasse negli anni sessanta. Il 'green' del titolo si riferisce, come spiegato nelle note dell'album, alla tinta verdognola che hanno le immagini dei film degli anni '60. Boh, se lo dicono loro! Il pezzo si apre con un'introduzione spettacolare che colpisce subito e si dipana in un tappeto musicale accattivante e originale.
Il 'CDFF' presente nel titolo di "CDFF - Lucky This Time" si riferisce al 'fast forward' (avanti veloce) degli allora neonati lettori CD, ed è giustificato dall'originale inizio della canzone, che potrebbe mandare nel panico chi non legge il titolo, ovvero il classico 'rumore' che si sente durante l'avanzamento veloce del CD. Per la cronaca, la canzone che sentite in quel frangente è la roboante "Addicted To That Rush" dell'album "Mr. Big". Il pezzo è una stupenda ballad semi acustica.
Un assolo acustico ci introduce alla fantastica "Voodoo Kiss", il mio secondo pezzo preferito, che col suo ritmo stoppato si rivela fresca e originale.
La cadenzata "Never Say Never" ci delizia con un ritornello impossibile da non cantare a squarciagola e ci accompagna fino alla traccia seguente, il secondo singolo estratto "Just Take My Heart": semplicemente la ballad più bella che abbia mai sentito in vita mia. Se ne consiglia l'ascolto a tutto volume assieme alla vostra anima gemella. Poeticamente stupendo il ritornello: "Prendi il mio cuore quando te ne vai, semplicemente non ne avrò più bisogno".
"My Kinda Woman" ci riporta su terreni più accidentati con la maestria ormai accertata dei Mr. Big.
Parte soffusa, calda e avvolgente "A Little Too Loose", per poi prorompere in una eruzione da oscar di blues contaminato con hard rock.
Siamo quasi in chiusura con la scoppiettante "Road To Ruin", canzone sui problemi 'di cuore' composta da Pat Torpey. Epici i trascinantissimi cori smaccatamente anni '80.
Si chiude con la ballata, primo singolo estratto, che ha trainato l'album dalle stalle alle stelle: "To Be With You". Dannatamente bella, seppur inferiore a "Just Take My Heart", possiede un innegabile feeling più commerciale che ne ha decretato il successo mondiale. Un anno fa ero in un centro commerciale e l'ho sentita nella radio di un negozio di alimentari, giusto per farvi capire il grado di fama raggiunto che le ha consentito non solo di promuovere alla grande l'album, ma anche di sopravvivere fino ai giorni nostri!
Nella versione giapponese c'è la tipica bonus track, "Love Makes You Strong", che a dispetto del titolo è un rock rocambolesco sparato a mille, anche se decisamente di minor valore artistico rispetto al resto del disco. Insomma, una chiusura extra movimentata per i fratelli giappo che tanto amano questa grande band.
Negli anni seguenti i Mr. Big pubblicano (oltre che un sacco di live, spesso inutili) gli album "Bump Ahead" (1993, contiene l'allucinante "Colorado Bulldog" e la cover 'da traino' di "Wild World" di Cat Stevens) e "Hey Man" (1996, orientato su sonorità più soft rispetto al passato), ottenendo una popolarità sempre crescente, ma solo in Giappone. Problemino che, assieme a discordie fra i membri della band, porterà allo scioglimento nel 1997 in seguito all'abbandono di Paul Gilbert.
Ingaggiato Richie Kotzen nel 1999, i nostri tornano in pista con dischi non sempre all'apice quali "Get Over It" (2000) e "Actual Size" (2001), per poi sciogliersi di nuovo nel 2002, dopo la pubblicazione del loro settimo (!!!) e ultimo live, "Live In Japan".
Nel 2009, in seguito alle pressioni dei fans e in occasione del ventennale della band, i Mr. Big sono tornati con la formazione originale per intraprendere un tour mondiale che ha recentemente toccato anche l'Italia e ha definitivamente chiarito l'amore del pubblico di tutto il mondo per una delle migliori band della storia del rock.
Ci dobbiamo aspettare un nuovo album? Per ora non ci sono dichiarazioni ufficiali, ma visto il clima di reunion che ha coinvolto molti gruppi storici negli ultimi anni, ritengo (e spero) che sia molto molto probabile.
Nel frattempo deliziamoci pure con il loro vecchio, grande, vasto repertorio.
venerdì 23 ottobre 2009

Richie chi?
Mr. Kotzen è uno dei chitarristi con le palle quadrate meno conosciuti, pur vantando partecipazioni in band famosissime quali i Poison (nell'album "Native Tongue" del 1993, forse il migliore della band, proprio grazie a Richie... che poi è stato cacciato perchè s'è pompato la moglie del batterista, ma son dettagli!) e i Mr. Big, oltre che una carriera solista ventennale decisamente invidiabile.
Dopo il fantastico "Return of the Mother head's family reunion" (2007), Richie ci delizia con il raffinato "Peace Sign", in cui affina ulteriormente il suo songwriting per andare a toccare l'animo dell'ascoltatore in modo ancora diverso rispetto a come fatto in passato. Sì, perchè il vecchio Richie riesce a spaziare abilmente dal rock al metal passando per la fusion (incredibile l'album "Tilt" del 1995, registrato assieme ad un altro mostro della sei corde quale Greg Howe).
In quattro pezzi dell'album suona tutti gli strumenti tranne la batteria e, come se non bastasse, ha una voce da paura, e lo dimostra benissimo anche in "Peace Sign".
Apre le danze "My Messiah", rockettara e blueseggiante come da trademark Richie Kotzen. Come molte delle sue canzoni possiede una venatura vocale soul che contribuisce a coinvolgere l'ascoltatore nella solo apparentemente grezza trama musicale.
"Paying Dues" è la classica canzone allegra e sopra le righe che potete trovare in (quasi) tutti gli album di Richie. Semplicemente spumeggiante, è il singolo estratto per promuovere l'album. Che voce, ragazzi, che voce! L'ho visto live due anni fa e vi assicuro che è da far accapponare la pelle per quanto è bravo!
"Best Of Times" ha un ritmo che prende subito e non ti lascia fino alla fine.
"Lie To Me" è la tipica ballad alla Richie Kotzen, non molto diversa da quelle scritte in passato, ma non per questo meno emozionante.
Il riff blues super-malato è ciò che caratterizza la title track, che è fatta apposta per scatenarsi un po'.
Sonorità vecchio stile per la fantastica "We're All Famous" e i suoi assoli semplicemente fuori dal normale.
E' la volta della spettacolare e cadenzata "You Got Me", altro pezzone che precede l'ancor più fantastica "Long Way From Home".
Ancora una ballad sopra le righe ("Catch Up To Me") e poi di nuovo giù di blues con la frizzante "Your Entertainer".
Nuovo break semiacustico con "Larger Than Life" seguita a ruota dalla rilassantissima e commovente "Holding On". Che classe!
Si chiude con una cover dei Jackson 5, la spumeggiante "I Want You Back".
Un artista che non finisce mai di stupire e che sembra non avere limiti di creatività.
Se vi è piaciuto questo album, lasciate che vi indichi qualcos'altro nella sua sterminata discografia: "Mother Head's Family Reunion" (1994), "Get Up" (2004) e "Return Of The Mother Head's Family Reunion" (2007) sono indubbiamente i migliori.
Se preferite sonorità più soft puntate su "Something To Say" (1997), mentre per i fans di chitarristi come Malmsteen o Marty Friedman, rispolverate il velocissimo "Electric Joy" (1991).
Ricordatevi questo nome: Richie Kotzen, un artista spettacolare per tutti i gusti.

Per chi non li conoscesse, i Primal Fear vengono fondati dal Ralf Scheepers (Voce), quando, dopo aver lasciato i Gamma Ray di Kai Hansen, scopre di non essere stato scelto dai Judas Priest per sostituire Rob Halford dopo la sua dipartita.
Ecco, praticamente i Primal Fear sono i cloni tedeschi dei Judas Priest e dal 1998 sfornano con una certa regolarità degli album di heavy metal classico che devono quasi tutto al seminale "Painkiller" (1991, Judas Priest, appunto).
Intendiamoci, i Primal Fear hanno una discografia invidiabile in quanto a validità, la loro unica pecca è la mancanza di un quid che li distinguerebbe dal loro gruppo di ispirazione e dal resto della massa delle bands di heavy metal classico.
Proprio a questo punto debole cercano di porre rimedio con "16.6 (Before The Devil Knows You're Dead)", il loro ottavo studio album. Per quanto riguarda il titolo, i membri della band hanno detto che non riveleranno cosa significa, anche se la "P" è la sedicesima lettera dell'alfabeto latino e la "F" è la sesta (16.6; P.F; Primal Fear?). Sinceramente però mi sembra troppo idiota come soluzione.
In questo album Mat Sinner, bassista e principale compositore, dà il meglio di sè, assieme ai colleghi Randy Black (batteria), Henny Wolter (chitarra) e Magnus Karlsson (chitarra), il nuovo arrivato che sostituisce per la prima volta Stefan Leibing.
Tutto l'album è permeato da un'atmosfera più epica rispetto alla semplice brutalità del passato, e ciò è un bene, perchè contribuisce a donare il quid di cui sopra.
Si parte con l'intro "Before The Devil Knows You're Dead", che dopo una quarantina di secondi composti da cori e orchestrazioni cede il passo alla prima vera canzone, "Riding The Eagle". L'aquila è un tema ricorrente nell'iconografia dei Primal Fear: campeggia su ogni copertina, e il fatto che su quella dell'ultimo album sia cammuffata, a detta della band è un ulteriore tentativo di innovazione.
Ma torniamo al pezzo. Un riffone dalle tinte power metal ci accompagna in un pezzo che sembra rubato ai Gamma Ray più ispirati. Assolo decisamente coinvolgente. Ottimo pezzo, ma non risolve il problema dell'originalità.
Riff pesante come un macigno per "Six Times Dead (16.6)", decisamente ispirata e portatrice di un'aria nuova in casa Primal Fear, anche grazie al malatissimo assolo. Headbanging assicurato.
Pertenza orientaleggiante per "Black Rain", stupendo pezzo che parla dei tradimenti in guerra passando dall'epicità dell'intro e dei bridge al ritornello tanto semplice quanto trascinante. Solo spot ottimamente costruito sia come inventiva che come ritmiche.
"Under The Radar" esalta con il suo feeling da cavalcata, ma la puzza di Gamma Ray si sente lontana un miglio. Comunque ottima canzone.
Assolo fulminante in partenza per "5.0/Torn", che prosegue in modo spettacolare e con un'anima progressive ispiratissima che cede il passo allo stile Primal Fear solo nel ritornello. Bending e armonici a manetta.
"Soar" è incazzatissima dal primo secondo! Ottima canzone, peccato solo per la banalità dei temi trattati: esplosioni nucleari, guerre e...il 2012. E' anche la più sperimentale dell'album, come testimoniato dalla parte centrale.
"Killbound", che parla di una legione di mercenari, sembra uscita da "Jugulator" dei Judas Priest per feeling, sonorità, impostazione del cantato ecc. Ancora un ottimo esempio di heavy metal.
"No Smoke Without Fire" è caratterizzata da atmosfere mai banali e di sicuro impatto, proprio quello di cui ha bisogno l'album.
Ancora power metal teutonico a farla da padrone in "Night After Night".
Si parla di vendetta con l'ispirata "Smith & Wesson", una fucilata sonora nelle orecchie. Decisamente riuscita.
Indovinate di cosa potrebbe trattare "The Exorcist"? Bravi. La musica è definibile, molto semplicemente, con una citazione abatantuoniana: "VIULEEEEEEEEEEEEEENZ'!!!".
La stupenda ballad "Hands Of Time" sfodera l'anima tenera della band, chiudendo ottimamente un disco altrettanto ottimo.
Si apprezzano gli sforzi di innovazione del sound, ma si può fare di più.
In definitiva un bell'album di metallo classico tendente al power, senza troppe pretese, che punta a soddisfare i palati dei fans senza riproporre pedissequamente la stessa (egregia) solfa degli album precedenti.
mercoledì 21 ottobre 2009

"Somic Boom: il boato generato dal superamento della velocità del suono."

L'ultima intervista a Gene Simmons (bassista dei KISS) che ho letto su Metal Maniac non lasciava spazio a dubbi: i KISS non avrebbero mai più inciso un album in studio e si sarebbero concentrati solo ed esclusivamente sulle release dei vari DVD. Il motivo? A fare un nuovo album ci si sarebbe guadagnato di meno rispetto al proporre DVD, parola del genio del marketing Gene Simmons.
Con la tristezza nel cuore (l'ultimo loro album "Psycho Circus", del 1998, era davvero buono! Sono già passati 11 anni?!) mi ero rassegnato a questa dichiarazione.
Mai fidarsi di una rock star.
Agosto 2009: viene rilasciato il primo singolo tratto dal nuovo album, "Sonic Boom". E la folla impazzisce. Il singolo, "Modern Day Delilah", è veramente uno spettacolo e sembra proprio segnare il ritorno alle sonorità del primo periodo dei KISS, ovviamente aggiornate agli standard di oggi.
2 Ottobre 2009: esce (in Italia, il resto del mondo vedrà la release qualche giorno più tardi, a seconda del paese...evvai!) "Sonic Boom".
Dopo una rapida occhiata alla copertina (di Michael Doret, autore della copertina di "Rock And Roll Over" del '76, e si vede) e subito ti accorgi che chiunque si occupi del marketing ci sa fare, eccome se ci sa fare: la scatola non contiene solo il nuovo CD, ma anche una raccolta di pezzi classici riregistrati (prima disponibile solo in Giappone sotto il nome di "Jigoku-Retsuden") e un DVD live contenente sei pezzi storici! Un vero scrigno del tesoro per ogni appassionato!
"Sti cazzi, chi se ne frega dei pezzi vecchi e dei DVD live! Se hanno fatto una cosa del genere vuol dire che il CD fa cagare!", penserà qualcuno. Beh, si sbaglia.
Questo è uno dei migliori album dei KISS da "Love Gun" (1979)!
In apertura troviamo il singolone sopra citato, "Modern Day Delilah": rimarrà ai posteri come una delle migliori canzoni dei KISS. Appena schiaccerete "play" vi troverete catapultati negli anni d'oro della band, con un riff DAVVERO rock e un Tommy Thayer (chitarra) che non fa affatto rimpiangere quell'Ace Freheley di cui porta la maschera. L'unico elemento che fa capire che Paul Stanley (voce e chitarra) è invecchiato è il falsetto un po' tirato che esibisce in un paio di occasioni. Eric Singer (batteria) non delude come al solito, anzi. Composta da Stanley, possiede un ritornello acchiappante come pochi e difficilmente dimenticabile già dopo il primo ascolto.
E' la volta di Gene al microfono, che ci propone la sua "Russian Roulette", vero anthem da stadio. Pur di livello inferiore (Paul Stanley alla composizione non lo freghi!) riesce a reggere bene il confronto col pezzo d'apertura. Solo a me una parte del riff ricorda spudoratamente l'inizio di "Breaking All The Rules" dei Wig Wam ("Wig Wamania", 2006)?
Il duo Stanley/Thayer ci regala l'incredibile "Never Enough", ancora una volta una canzone vecchio stile e ancora una volta centro completo per i KISS.
Anche Simmons sfodera gli artigli con la successiva "Yes I Know (Nobody's Perfect)", uno dei pezzi migliori dell'album. Grande chorus, bel riff tipico dei KISS. Impossibile non prorompere in un poderoso "Yes I Know!...Yes I Know!" dal secondo ascolto in poi!
Finalmente all'opera la premiata ditta Stanley/Simmons con "Stand", dal ritornello ruffianissimo e decisamente palloso. Peccato, perchè la canzone è globalmente ottima.
E' di nuovo il turno di Gene con "Hot And Cold": wow. Farà sfaceli in sede live, garantito. Gran ritmo ed ennesimo ritornello irresistibile. Stupendo il bridge finale.
"All For The Glory" (Stanley/Simmons) è una dichiarazione di intenti. Vi cetturerà sin dai primi secondi e sin dal primo ascolto. Ancora una volta ritornello da stadio.
"Danger Us" by Paul Stanley è un altro fottutissimo centro: riff spettacolo e (indovinate un po'?) chorus da oscar.
"I'm An Animal" (Stanley/Simmons/Thayer) incattivisce quanto basta l'atmosfera. Cadenzata e malefica, uno dei pezzi migliori.
Siamo quasi alla fine con "When Lighting Strikes", pezzo composto da Thayer e Stanley. Devo dire che Thayer ci sa davvero fare, sia come compositore che come esecutore. Bellissima.
La Stanleyana "Say Yeah" chiude un album fantastico con una struttura e sonorità decisamente più pop rispetto al resto dell'album. Ancora più easy listening del resto (era difficile, ma i KISS possono tutto).
L'unica critica che si potrebbe proporre a quest'album è la somiglianza fra le canzoni, che va oltre il fattore "filo conduttore". Ma sarebbe proprio andare a cercare il pelo nell'uovo.
Compratelo, fatevelo regalare, fate come cacchio vi pare: "Sonic Boom" è da avere ad ogni costo. Anche se dovremo aspettare altri undici anni per l'album successivo, nel frattempo avremo da divertirci. ALLA GRANDE.

La Svizzera è neutrale? Non nel rock! I Gotthard sono uno dei gruppi più importanti dell'hard rock moderno e ce lo hanno dimostrato più di una volta con album spettacolari (fra tutti "Gotthard" del 1992, "Dial Hard" del 1994, "G." del 1995 e soprattutto l'incredibile "Lipservice" del 2005).
Ci avevano lasciati leggermente perplessi col cupo "Domino Effect" (2007), da alcuni ritenuto un capolavoro, da altri un passo indietro che riportava i Gotthard al periodo di transizione pre-Lipservice.
Tornano oggi con "Need To Believe", album altalenante ma di miglior fattura rispetto al precedente.
"Shangri La" apre le danze con un riff orientaleggiante. Steve Lee (voce) ricorda molto lo Stephen Tyler di "Nine Lives" (Aerosmith, 1997), ma lo fa in uno stile tipicamente Gotthard. Il chorus è di quelli acchiappanti che hanno fatto la fortuna della band. Leo Leoni (chitarra) stupisce con un assolo tanto semplice quanto originale.
"Unspoken Words" porta l'ascoltature in atmosfere più cupe e cattive che sfociano in un ritornello classico e sinceramente strasentito. Peccato.
Il primo singolo "Need To Believe" è la classica semi ballad made in Gotthard, che però ancora una volta stenta a rapire l'ascoltatore, complici un riff poco ispirato e un ritornello con poco mordente.
Si cambia atmosfera con "Unconditional Faith", che finirà nella colonna sonora del film del regista Uwe Boll sul pugile tedesco Max Schmeling. Stavolta il pezzo è decisamente azzeccato! Cori strappaorecchie e gran feeling con uno Steve Lee che dà il meglio di sé.
Finalmente il pezzo rock che tutti aspettavamo! "I Don't Mind" non sarà un capolavoro di originalità, ma è fottutamente pazzesco. Vi sfido a non scapocciare al ritmo della cassa martellante. Scontata? Già sentita? I don't mind!
La semiacustica "Break Away" è una ballad di buona fattura che però difficilmente riuscirà ad offuscare alcuni capolavori del passato come ad esempio "I've seen an angel cry" (da Lipservice).
"Don't Let Me Down" è una ballad decisamente evitabile, visto che di pezzi come questo i Gotthard ne hanno scritti a palate.
Si torna su ottimi livelli con la movimentata "Right From Wrong". Feeling cattivo e ritornello che si impianta in testa sin dal primo ascolto.
"I Know, You Know" parte lenta e rilassata per poi spiazzarti quando meno te lo aspetti, trasformandosi in un ottimo hard rock cadenzato caratterizzato da un chorus decisamente particolare. Bell'assolo, Leo!
Pesantezza quasi metallica, basso strisciante, doppia cassa e ottimo ritornello con "Rebel Soul", uno dei pezzi migliori dell'album!
Addirittura orchestrazioni (se sono campionature sono fatte molto bene) in apertura per "Tears To Cry", ballad carica di pathos, ma ancora una volta poco catturante.
La bonus track "Ain't Enough", in chiusura, è ironicamente uno dei pezzi migliori. Bella cazzuta!
In definitiva un album decisamente superiore a "Domino Effect", ma purtroppo molto lontano dai fasti di "Lipservice". Intendiamoci, ottimo hard rock di matrice europea e decisamente superiore alla media, purtroppo però si sa che dopo aver scritto un capolavoro i fans diventano molto più esigenti.
Se ne consiglia comunque l'acquisto senza pensarci due volte, non lasciatevi scoraggiare dalla orrida copertina!
giovedì 17 settembre 2009

E' ora della recensione storica. E' non uso la parola storia a sproposito, perché qui siamo di fronte a un album che ha profondamente influenzato il genere, e probabilmente lo influenzerà per i secoli a venire.
Gli Iron Maiden nascono nel 1979 a Londra per volontà dell'allucinante bassista Steve Harris. In quegli anni il rock è in declino, mentre il punk imperversa in una nazione operaia e che risente ancora del dopoguerra. Non c'è nessun segnale di inversione di tendenza. Insomma, per capirci bene: il rock era dato per morto.
Nessuno avrebbe mai immaginato che di lì a poco si sarebbe assistito alla N.W.O.B.H.M. (lungherrimo acronimo che sta per "New wave of british heavy metal", cioé "nuova ondata di heavy metal britannico"), di cui gli Iron furono l'indubbio gruppo di punta.
Nel 1980 pubblicano il loro debutto "Iron Maiden" e nel 1981 "Killers", con alla voce il cantante Paul Di'Anno. In questi due album è racchiusa l'anima dei primi Maiden, ovvero cinque ragazzi semplici, rozzi e maledettamente bravi. Grazie al loro talento e all'appassionato e innovativo management di Rod Smallwood (che ebbe la brillante idea di portare sul palco Eddie, o meglio Edward The head, la ormai storica mascotte della band, per distogliere i riflettori dai componenti veri e propri), i Maiden nel giro di soli tre anni conquistano pubblico e stampa. Sono lanciatissimi quando Di'Anno lascia la band perché non ce la faceva più (assumeva droghe e diciamo che lo stile di vita della band, nei primi anni, era decisamente spartano). Urge un nuovo cantante e i nostri adocchiano quello dei Samson, un certo Bruce Bruce, un folletto dalla voce assolutamente incredibile.
Riescono a convincerlo ad entrare nella band, si mettono al lavoro per il terzo album e BAM! Nel 1982 esce "The Number Of The Beast". La line-up è costituita quindi da: Bruce Dickinson (che è stato preso a patto che usasse il suo vero cognome, invece che Bruce Bruce, per fortuna), Steve Harris, Dave Murray (chitarra), Adrian Smith (chitarra) e Clive Burr (batteria). In più dietro alla consolle c'è niente di meno che Martin Birch, che aveva prodotto band come Deep Purple e Black Sabbath.
In soli otto pezzi (nove, se contiamo anche il b-side "Total Eclipse", incluso nel 1998 nella edizione rimasterizzata) i nostri ridefiniscono un genere, oltre che la loro stessa essenza.
Infatti le sonorità sono diverse dai lavori precedenti, anche se accomunate dallo spirito Maiden. Le canzoni sono molto più cariche ed epiche, soprattutto grazie alla incredibile voce di Bruce.
"Invaders" apre l'album sconvolgendoti col suo riff e la sua velocità. Non ti sei ancora ripreso e vieni investito dal primo classico: "Children Of The Damned", epica e trascinante in sede live.
"The Prisoner" si ispira all'omonima serie TV degli anni '70 ed è l'ennesimo centro.
Si prosegue con il seguito di quella "Charlotte The Harlot" (letteralmente "Carlotta la mignotta") apparsa nel primo album: "22 Acacia Avenue", nel cui bridge Dickinson sperimenta un po' di screaming-growl ante litteram, mentre racconta di prostitute e amori impossibili.
Segue il classico dei classici dell'heavy metal: "The Number Of The Beast". Una linea di basso semplicemente geniale accompagnata da due chitarre che ti trascinano l'anima. Dickinson dà il meglio di sé. Se non vi piace questa canzone, cambiate genere musicale.
"Run To The Hills" è il singolone trascinante, ma è anche una canzone fantastica, immediata e storica che ancora oggi miete vittime in sede live. Nonostante il video ironico, parla dello sterminio degli indiani d'America a opera dei conquistadores.
"Gangland" è decisamente la meno ispirata del disco, anche se probabilmente altre band venderebbero l'anima per comporre qualcosa del genere.
Segue la sopra citata "Total Eclipse", che in origine era un b-side (cioé le canzoni che si mettevano sul lato b dei singoli in vinile, che di solito erano più che altro dei riempitivi). Di certo non è una canzone memorabile, ma non mi sento neanche di definirla "riempitivo". Diciamo che stona un po' dal resto dell'album, ecco tutto.
Si chiude in bellezza con "Hallowed Be Thy Name", sette minuti e dieci di orgasmo musicale. La mia preferita in assoluto di tutta la loro discografia, che parla in modo molto profondo della pena di morte.
Il disco venne accolto benissimo in tutto il mondo e in Inghilterra schizzò al primo posto senza nemmeno l'ombra di un passaggio in radio o in televisione.
In America l'associazione dei "coglioni benpensanti", come mi piace chiamarla, ingaggiò un'imponente campagna mediatica contro i Maiden, giudicando l'album dalla copertina (in senso letterale) e accusandoli di satanismo. Gli sarebbe bastato leggere il testo di "The Number Of The Beast" per capire che stavano sparando stronzate, ma si sa come sono gli Americani. Ovviamente come risultato ottennero che l'album ebbe una pubblicità a tappeto che mai la band si sarebbe potuta permettere, con conseguente impennamento delle vendite e scalata delle classifiche.
Nonostante i (tanti) successi negli anni a venire e nonostante il formidabile batterista Nicko McBrain sarebbe arrivato solo con il successivo "Piece Of Mind", quest'album rimane senza ombra di dubbio il capolavoro assoluto degli Iron Maiden, che ancora oggi deliziano le nostre orecchie con album sempre di valore (a parte il periodo-scivolone in cui Dickinson lasciò la band e venne sostituito da Blaze Bayley, in cui si salvano solo una manciata di pezzi su due album interi).
Nel 2010 è atteso il quindicesimo (!!!) album in studio.
UP THE IRONS.
mercoledì 9 settembre 2009

E' dura recensire il nuovo album del proprio gruppo preferito, si rischia di non essere oggettivi.
Per analizzare “Endgame” si deve partire dal 2004, anno d'uscita di “The System Has Failed”. Dave Mustaine (voce e chitarra, padre-padrone dei Megadeth), dopo un periodo di convalescenza, dà alle stampe quello che sarebbe dovuto essere il suo primo disco solista, ma per obblighi di contratto deve scrivere “Megadeth” sulla copertina. A quel punto della sua carriera i Megadeth erano praticamente morti, dopo ennesimi cambi di line up e mancanza di vero successo da ormai troppo tempo. Tuttavia avviene il miracolo: tanto ironicamente quanto scontatamente T.S.H.F. rivela che Dave è i Megadeth. L'album ha molto successo tanto da convincere la major di allora a imbastire un nuovo tour di successo.
Ciò che è cambiato sono le sonorità, molto più moderne e molto più aperte a nuove soluzioni, che però non soddisfano molti dei fans di vecchia data, che definiscono alcuni brani troppo easy listening. Personalmente ho adorato T.S.F.H., trovandolo fresco e originale.
Tuttavia, dopo il ritorno in pompa magna, urge un disco che metta d'accordo tutti. Nel 2007 esce “United Abominations”, che segna un parziale ritorno verso le sonorità tipiche dei Megadeth. Tuttavia anche stavolta i fans sembrano divisi: l'album è buono ma manca qualcosa per renderlo indimenticabile.
“Endgame” costituisce un altro passo in avanti, pur non centrando ancora del tutto il bersaglio.
Mustaine ritrova una freschezza compositiva latente da tempo, accompagnato dall'allucinante Chris Broderick (ex Nevermore e Jag Panzer) alla chitarra: il duo esplode subito nell'intro strumentale “Dialectic Chaos”, una fucilata alla velocità della luce che in due minuti mette in evidenza tutto l'estro dei due chitarristi con assoli che si rincorrono, si incrociano in un vortice di frenesia e doppia cassa made in Shawn Drover. Si nota subito il ritorno alle sonorità anni '80, anche se ovviamente aggiornate ai nostri giorni. E, con mia sorpresa, quasi non si rimpiange David Ellefson, il vecchio bassista dei Megadeth pre-declino, sostituito da un James LoMenzo in gran forma.
Senza interruzioni irrompe “This Day We Fight!”, ispirata dal discorso di Aragorn ai suoi soldati ne “Il signore degli anelli: il ritorno del re”. Mustaine digrigna le parole come suo trademark in una canzone che riporta la mente ai bei tempi andati. Se avete ascoltato attentamente vi sarete resi conto di quanto è pulito il tocco di Broderick (merito anche del produttore Andy Sneap), che si rivela un vero mostro alla sua prima prova nei Megadeth. Il riff è molto veloce e non ha quel groove tipico dei Megadeth che ti fa scapocciare a pressione e la canzone si rivela vecchio stile e incazzata come non ne sentivamo da tempo.
Intro soffuso per “44 Minutes” (ispirata ad una rapina ad una banca di Hollywood nel 1997), che sembra uscita da quel mezzo ritorno alle origini che fu “The World Needs A Hero” (2001). Il ritornello non è al livello del riff portante, purtroppo. E' difficile che vi ritroviate a cantarlo in doccia, ma pazienza: la canzone è buona e scorre che è un piacere.
Ora sì che si ragiona. Ecco che vuol dire “ritorno alle origini”. Ispirata dalle 'nitro fuel funny cars' di cui Mustaine è appassionato, “1.320” ha un riffone semplicemente allucinante e un bridge dissonante pazzesco che ci fanno perdonare il ritornello non ispiratissimo. Finale al cardiopalma con l'ormai classico assolo che chiude il pezzo: sentirete il vento che vi sferza la pelle durante l'ascolto, garantito.
“Bite The Hand” parla dell'avidità degli operatori del mondo finanziario, che hanno lasciato molti investitori in mutande per il solo profitto personale, e lo fa con uno stile veramente pazzesco: riff fantastico, cambi di ritmo tipici dei 'deth ed ennesimo assolone. Chiusura al cardiopalma.
Intro malefico di basso e voce e “Bodies Left Behind” si rivela l'ennesimo pezzo ispirato. Il ritornello ricorda quello di “Disconnect”, opener di “The World Needs A Hero”. (Ancora) accelerazione in chiusura con (ancora) relativi assoli.
“Endgame” parla della legge firmata da Bush, che dà al presidente USA il potere di imprigionare qualunque cittadino americano. Musicalmente è in perfetto stile “United Abominations”, con un riff non miracoloso ma molto coinvolgente. Mustaine vomita tutto il suo disprezzo verso la suddetta vicenda nel minuto finale, carico di violenza verbale e sonora in un crescendo che chiude in bellezza la title track.
“The Hardest Part Of Letting Go...Sealed With A Kiss” è il pezzo più brutto del lotto. Semi-ballad con tanto di archi epici durante il riff (decisamente poco originale). La canzone inizia lenta ed evocativa, esplode nella sua sezione centrale e si avvia di nuovo lenta ed evocativa verso la sua conclusione. Ma i tempi di “A Tout Le Monde” (dall'album “Youthanasia” del 1994) sono decisamente lontani.
“Head Crusher” è il primo singolo ed indubbiamente la canzone più ignorante di tutte: doppia cassa a manetta, ritmiche quadrate alla velocità della luce, ritornello semplicissimo e pensato per l'headbanging. Cambio di tempo verso la fine (ma va?)... e il pubblico impazzisce. Ripeto: semplice, diretta e ignorante. Che volete di più?
“How The Story Ends” è ispirata dallo stratega Sun Tzu, che da quel che ho capito usava bandiere e tamburi in battaglia. Gradevole, ma giustamente relegata in coda al disco.
“The Right To Go Insane” recita 'non ho niente altro da perdere se non la mia sanità mentale, ho il diritto di impazzire'. E' ispirata alla recessione che soprattutto in America ha distrutto molte vite. Canzone decisamente dimenticabile, se non fosse per la chiusura affidata ad un riff ALLUCINANTE che poteva essere sfruttato di più.
Capolinea.
Ricapitolando: generale ritorno al sound di una volta, pezzi di buona fattura con picchi di ottima fattura, assoli pazzeschi e testi ispirati. Allora perché prima ho detto che il centro non è stato preciso? Per alcuni motivi non trascurabili. In primis la struttura delle canzoni, troppo ripetitiva. E' quasi sempre la stessa storia: partenza, sviluppo del riff, ritornello, assolone incrociato, cambio di tempo, assolone che chiude il pezzo con un sustain. Sinceramente mi aspettavo delle soluzioni un po' più varie. In secundis Shawn Drover mi ha profondamente deluso: è un ottimo batterista, ma le ritmiche sono tutte uguali. Mai una variazione, sempre doppia cassa e rullante ignorantissimi, per due album di fila. Mi aspettavo di più dopo il rodaggio di “United Abominations”, molto di più. Sarà che essendo fan della prima ora Gar Samuelson e Nick Menza sono impressi a fuoco nella mia memoria. Correggendo questi due aspetti, a mio modesto parere, ci sarebbe un balzo in avanti non indifferente. Tertier: va bene la promozione, ma dichiarare che ogni album in uscita suona come “Rust In Peace” mette delle aspettative bestiali che poi vengono puntualmente deluse, e finisce che, a lungo andare, si attende l'album successivo sempre più prevenuti.
Niente da eccepire sui riff non originalissimi: questi non sono i vecchi Megadeth. Prima (1985-1994) c'era un'alchimia assurda e, soprattutto, erano gli anni '80 e i primi '90.
Siamo nel 2000 da ormai quasi dieci anni, se state ancora aspettando il ritorno dei Megadeth di “Wake Up Dead” (album “Peace Sells...But Who's Buying?” del 1986) allora vuol dire che non avete capito proprio niente.
Vai Dave, continua a fregartene che vai sempre più in alto come un falco, come un fulmine!
martedì 1 settembre 2009

SENZA PAROLE.
Gli Hardcore Superstar ti esordiscono nel 1998 con "It's Only Rock 'n' Roll" e a stento li noti, poi nel 2000 ti schiaffeggiano col rock-punk di "Bad Sneakers And A Pina Colada" e capisci che valgono. Quando cominci a sperare in loro ti sfornano due cagate di album come "Thank You (For Letting Us Be Ourselves)" (2001) e "No Regrets" (2003) e li dai per spacciati.
Ti giri e non appena gli dai le spalle...BAM! Te lo mettono in quel posto con un album come "Hardcore Superstar" (2005), un capolavoro di Street Rock misto a Metal misto a Glam. Ti fa ancora male il culo che se ne escono con l'incazzatissimo "Dreaming In A Casket" (2007) e oggi segnano una poderosa tripletta con "Beg For It".
I toni si alleggeriscono leggermente rispetto a "Dreaming", ma rimangono più pesanti di "Hardcore". Il sound si discosta di poco dai due lavori precedenti, confermandosi marchio di fabbrica e fonte di successo per gli Harcore Superstar (che, per la cronaca, sono svedesi). Copertina fantastica.
"This Worm's For Ennio" è evidentemente dedicata ad Ennio Morricone e rievoca atmosfere western in due minuti e dieci semplicemente commoventi ed indimenticabili.
Poi parte "Beg For It" e ti si inceneriscono i peli delle orecchie. Riffone, cattiveria, ritornello irresistibile. Orgasmo.
"Into Debauchery" è energia pura. Doppia cassa bruciante in partenza e secondo capolavoro. Groove a mille.
"Shades Of Grey" rallenta leggermente per compensare in inventiva.
Un treno impazzito che vi metterà sotto, ecco cos'è "Nervous Breakdown".
"Hope For A normal Life" è una stupenda canzone semi acustica, un occasione per tirare il fiato prima di ripiombare in un vortice di potenza con "Don't Dare 'bout your Bad Behaviour".
Apritevi il cranio e lasciate che "Remove My Brain" svolga il suo compito mentre scapocciate al ritmo della chitarra granitica e del trascinantissimo campanaccio.
"Spit It Out" è il secondo pezzo lento...ma anche NO! Ancora campanaccio ed ennesimo pezzo semplicemente da pazzi!
"Illegal Fun" per fortuna è legale, altrimenti ci staremmo perdendo un altro capolavoro!
Riff spezzato per "Take 'em All Out", che vi farà scapocciare a tutto volume.
Purtroppo la festa è finita e "Innocent Boy" chiude il disco con classe. Anzi senza, come vi accorgerete dopo i primi 30 secondi. Canzone ignorante e in-your-face. Giusto per ricordare a tutti che stiamo parlando degli Hardcore Superstar, mica cazzi!
Avete dei soldi da spendere? Spendeteli qui e vi divertirete, parola mia!