martedì 14 luglio 2009


Cari lettori e care lettrici, sono costretto a mettere in pausa l'attività del blog fino a Settembre, causa mancanza internet! Mi trasferisco al mare, finalmente.
Nel frattempo mi terrò informato sulle nuove uscite tramite la cara vecchia carta stampata, così che al mio ritorno ci sarà un bel po' di carne al fuoco!
Pogate con prudenza ;P
ROCK ON! \m/-
lunedì 13 luglio 2009

Largo ai giovani! I Mantic Ritual arrivano da Pittsburgh, Pennsylvania. Nascono nel 2004 col nome di Meltdown (che cambiano nel 2007 per motivi legali) per poi firmare per la Nuclear Blast, per la quale danno alle stampe il debutto "Executioner".
Si parla di uno degli album più validi dell'ondata di revival thrash che sta interessando la scena in questi ultimi anni. Non cercateci nulla di originale, è un album col solo scopo di riportare in vita il caro vecchio thrash metal di una volta, per capirci quello duro e puro stile "Kill 'em All"(1983) dei Metallica!
Le intenzioni di Dan Wetmore (voce e chitarra), Ben Mottsman (basso), Jeff Potts (chitarra) e Adam Haritan (batteria) traspaiono sin dalla copertina: pronti all'headbanging furioso, quello che vi fa dolorare il collo? Go!
"One By One" apre le porte del delirio come solo una gran band thrash sa fare. Riff velocissimo e classica ritmica cassa-rullante. A metà canzone si assiste a un cambio di ritmo pensato per il moshpit, seguito da un assolo che pesca a piene mani dal repertorio di Kirk Hammett. Spaccaossa.
Spazio alla cattivissima title-track, uno schiacciasassi col motore di una Jaguar. Assolo ispiratissimo e chiusura spettacolare. Stavolta il primo gruppo storico che torna alla mente sono gli Exodus.
"Black for sin" vi tira sotto dalla prima nota: un tornado assassino di sette minuti che nemmeno gli Slayer. Riff ancora una volta ispiratissimo e con un tocco di groove alla Anthrax.
Senza sbagliare un colpo i Mantic ci regalano una canzone fatta per il pogo: "Death and destruction", anche questa con forti reminiscenze Exodus.
"Murdered to death" inizia con classe e prosegue con stile, riff velocissimo, durissimo e complicato, rallenta vertiginosamente creando un'atmosfera maligna e ripiomba nel vortice del metallo in men che non si dica.
Altra canzone da sette minuti, "Souls". Stavolta i quattro avanzano più ragionati...almeno per i primi cinquanta secondi! Solo spot grandioso.
E' la volta di "Panic", decisamente uno dei pezzi più cattivi di tutto il disco.
"Double the blood" ha quel tipico riffing thrash nè troppo lento nè troppo veloce, studiato per trapanarti il cervello, farci il nido e non andarsene più.
"Thrashatonement" invece ricorda (la batteria all'inizio è proprio uguale) "The skull beneath the skin" dei Megadeth (dall'album "Killing is my business...and business is good" del 1985), senza ovviamente raggiungere quei livelli però. I Megadeth non si toccano. Inoltre si sviluppa davvero male, in un vortice di frenesia chitarristica francamente confusionario.
"By the cemetery" riporta l'album su ottimi livelli in men che non si dica. Sembra composta dagli Slayer migliori: scambiate Wetmore con Tom Araya e potrebbe essere tranquillamente un outtake di "Hell Awaits" (1985, ovviamente degli Slayer).
Finale collegato con l'inizio di "Next attack", ultima canzone ed una delle migliori di tutto il disco. E' incredibile come rallentando un pochino questi ragazzi riescano a diventare dei cloni dei migliori Metallica, mentre un attimo prima sembravano gli Slayer e un attimo prima ancora gli Exodus!
Vi piace il thrash vero? Gli ultimi lavori dei Metallica vi stanno pesantemente sul cazzo? I Megadeth non sono più quelli di una volta? Gli Slayer non vi soddisfano più? Rimpiangete il vecchio stile degli Exodus? Entrate nel vostro negozio di dischi, individuate "Executioner" e tuffatevici a pesce!!!
A quando il prossimo album?

Tornano sulle scene gli Extreme e lo fanno con la label partenopea Frontiers, che negli ultimi anni cresce sempre di più e dimostra grande interesse per il rock.
Per chi non li conoscesse, gli Extreme sono un piccolo grande gruppo di funk metal che esordì nel 1989 con l'accattivante "Extreme", sbancò con il semplicemente divino "Pornograffiti" (che conteneva la super ballad 'More than words', a suo tempo soggetta ad heavy rotation su MTV), proseguì nel 1992 con lo scialbo "III sides to every story" e si sciolse dopo il pessimo "Waiting for the punchline", uscito nel 1995, che cercava di cavalcare le sonorità grunge che in quegli anni hanno condannato a morte moltissime band rock e metal.
L'anima pulsante della band è sempre stata la coppia Gary Cherone (voce) e Nuno Bettencourt (chitarra). Cherone dopo lo scioglimento della band ha registrato il pessimo "Van Halen III" (1998) con i Van Halen, appunto, per poi essere cacciato in seguito allo scarso successo dell'album. Bettencourt, dopo i primi due album, iniziò a venire apostrofato come "il nuovo Van Halen" per l'originalità e la tecnicità della sua proposta; dopo li scioglimento degli Extreme ha militato in diverse band come turnista. Pat Badger (basso) è sempre mitico, anche se fuori dagli Extreme non ha combinato nulla. Nell'ultimo disco Kevin Figueiredo sostituisce il latitante Paul Geary.
All'annuncio di "Saudades de rock" (letteralmente "nostalgia del rock") i dubbi erano lampanti: la puzza di reunion per racimolare soldi si sentiva lontana un miglio. E non è che fosse un presentimento del tutto sbagliato, dopotutto l'album non gode di quella freschezza compositiva del passato, ma va bene, è comprensibile.
Però dagli Extreme vogliamo il funk! Tonnellate di funk! Funk funkeggiante al massimo! Invece qui il funk fa capolino ogni tanto, saluta e si va a prendere una birra!
Si preme play e Nuno e co. te lo mettono nel di dietro da maestri, con "Star": ti sembra di essere tornato/a ai tempi di "Pornograffiti", il riff è bellissimo, il funk c'è, il ritornello acchiappa. Cosa c'è che non va? Non va che è una della cenzoni più ripetitive della storia e gli Extreme ci avevano abituato a tutto, tranne che alla ripetitività. Che cazzo, sono dieci anni che ascolto "Pornograffiti" ed è ancora appassionante come il primo giorno!
"Confortably Numb" fa il verso ai Pink floyd solo nel titolo. Questa è proprio un esempio lampante di canzone onesta in cui il funk fa capolino. Gradevole.
"Learn to love" assomiglia spaventosamente a "Cupid's dead" dal loro terzo album. Sono praticamente identiche. Simpatico doppione.
"Take us alive" vi travolgerà col suo...country. Ma per piacere...
Con "Run" si torna su livelli di decenza: peccato per il ritornello, così poco trascinante.
"Last hour" dovrebbe essere una semi-ballad, ma mette solo una tristezza infinita.
"Flower Man" ha un riff acchiappante dalle forti tinte punk.
"King of the ladies" è decisamente gradevole, basandosi su un testo irriverente e un tappeto di basso iper distorto. Un pizzico di chitarra in più e avremmo di fronte un gran pezzo.
"Ghost" è la prima vera ballad, decisamente di impatto con la sua atipicità. Nuno al pianoforte, come già sentito in passato.
Si torna a rockeggiare con "Slide". Ehi, ciao funk! Da quanto tempo! Buona la birra? Direi di sì, vista la canzone! Magari l'album fosse stato tutto più o meno così!
"Interface" è la seconda ballad, questa volta decisamente più classica. Niente di che.
Un altro pizzichino di funk con "Sunrise", onesta, ma nulla più.
"Peace (Saudade)" chiude il lotto delle nuove registrazioni con atmosfere soffuse e rilassanti.
Bonus track esclusivamente europea: "Americocaine", una demo del 1985 mai pubblicata prima. Se ce la fossimo trovata in uno dei primi due album l'avremmo considerata una canzone "normale", qui è la manna dal cielo. Ascoltatela e avrete un assaggino MINIMO di cosa erano capaci gli Extreme dei bei tempi!
Bel disco o reunion macina quattrini? Se siete fans degli Extreme potreste farci un pensierino dopo aver ascoltato qualcosina in giro per la rete, altrimenti compratevi "Pornograffiti" e andate sul sicuro.
domenica 12 luglio 2009

Una mattonata sui coglioni, ma anche no. Con questa frase potremmo considerare conclusa la recensione. Sì, perchè “Nostradamus” è quanto di più distante dal precedente “Angel Of Retribution” (2005, album validissimo, nonché ritorno Rob Halford al microfono dopo la parentesi Tim Owens) che i Judas Priest potessero comporre. Concept (prima volta per loro) in due CD che parla dell'affascinante figura di Nostradamus, “profeta” visionario del medioevo. Più che sulle predizioni, i nostri si soffermano sulla figura umana del personaggio, facendo capire che si sono messi a tavolino a studiare: nascita, vita, amori, profezie, guerre, morte.
Sotto il profilo musicale per la prima volta i 'metal gods' inseriscono nelle composizioni ritmiche marziali e massiccie orchestrazioni d'atmosfera. Pochi sono i pezzi che presentano le caratteristiche tipiche dei Judas che tanto amiamo: scordatevi “Delievering the goods”, “Breaking the law”, “You've got another thing coming”, “The sentinel” e “Painkiller”. Qui ci si presentano dei Judas nuovi, epici, più ragionati, meno immediati e decisamente brodosi. Scordatevi pure gli assoli “incrociati” made in Tipton/Downing (chitarre), che faranno raramente capolino durante i ventitre pezzi. Scott Travis abbandona il suo tipico stile doppia cassa – rullante per un drumming più lento ma decisamente poco originale. Rob Halford ha un tono di voce molto più basso, profondo e a suo modo mistico, come era prevedibile date le sue difficoltà a riproporre le canzoni più “alte” in sede live. Purtroppo l'età avanza anche per il metal god per eccellenza, anche se Glenn Tipton e K.K. Downing hanno assicurato in un'intervista a “Metal Maniac” che è stata una precisa scelta stilistica e che Halford riesce ancora a raggiungere le note alte come in passato: forse loro erano strafatti durante il loro live “Rising in The East” (2005), perchè la sofferenza di Halford nel cantare si sente e si vede! E Ian Hill (basso)? Non ha mai fatto nulla di particolare dal 1974, perchè dovrebbe ora?
Inoltre già dopo il primo ascolto si capisce che difficilmente la resa live dell'album sarà semplice e difficilmente potrà essere richiesta dai fans, visto che i pezzi possono trascinare se ascoltati in meditazione religiosa dal vostro stereo, ma live hanno ben poco mordente.
Mancanza di presa dovuta anche ad un generale rallentamento dei ritmi, serratissimi fino allo scorso album: in generale il 90% delle canzoni sembra un mix dell'ultima parte del repertorio di Ronnie James Dio con le atmosfere dei Black Sabbath più cupi (non dico Heaven & Hell semplicemente perchè “Nostradamus” è uscito prima di “The Devil You Know”) e Rob Halford che canta.
Il feeling è più o meno lo stesso per tutta la durata del platter.
Quasi sempre, prima di ogni canzone c'è un intro strumentale o narrato di breve durata (uno, due minuti): a mio parere si potevano benissimo evitare, snellendo di molto l'ascolto.
Non analizzo pezzo per pezzo perchè la recensione diventerebbe un elenco di descrizioni più o meno tutte uguali. Gli unici ascoltabili in modo godibile anche fuori dal contesto del concept sono “Prophecy” e “Nostradamus”, che guardacaso sono i più classici e guardacaso sono quelli riproposti più frequentemente nei live.
Insomma, un ottimo concept album epico e carico di atmosfera, ma un pessimo album dei Judas Priest.
Tuttavia vi consiglio lo stesso di ascoltarlo, è un album che ha diviso i fans, quindi non lasciatevi influenzare troppo negativamente dalla mia recensione, potrebbe diventare il vostro disco preferito!
sabato 11 luglio 2009

Alle parole “Rock Opera” di solito si associa in primis “The Wall” dei Pink Floyd, poi "Tommy" degli Who, “2112” dei Rush o, più recentemente, “Scenes From A Memory” dei Dream Theater.
Tuttavia pochi conoscono uno dei concept (cioè un album che racconta una storia attraverso le sue canzoni) più appassionanti e innovativi del panorama hard & heavy.
Sto parlando di “Operation: Mindcrime” dei Queensryche, uscito nel 1988 per la EMI.
I Queensryche nascono a Bellevue (un sobborgo di Seattle, USA) nel 1981, dalle ceneri della band “The Mob”.
La loro carriera discografica inizia nel 1983 con l'EP “Queensryche”, contenente canzoni ormai passate alla leggenda come “Queen of the reich”.
Negli anni successivi è la volta di “The Warning” (1984) e “Rage for order” (1986). Fino a questo punto il sound dei Queensryche risente pesantemente delle mode anni '80, come ad esempio gli 'echi' della batteria, forgiando comunque uno stile abbastanza originale e valido.
Ma la svolta è datata 1988, appunto. Geoff Tate (voce) è in stato di grazia, così come Chris De Garmo (chitarra), Eddie Jackson (basso), Michael Wilton (chitarra) e Scott Rockenfield (batteria): il risultato è un album esplosivo, moderno (se fosse uscito oggi sarebbe ancora alla mano), ma che soprattutto ha qualcosa da dire. Perchè, diciamocelo, la maggior parte delle band che amiamo si stabilizza su stereotipi del genere che variano da 'morte, sangue, distruzione' a 'w la figa e la birra', passando per 'rock and roll bla bla bla rock and roll'. Nulla da criticare, per carità, ognuno fa come vuole, soprattutto se il risultato è valido, ma i Queensryche sono decisamente un gradino più in alto.
“O: M” usa il pretesto della storia di Nikki (nome molto anni '80, omaggio a Nikki Sixx? Chi lo sa...) per gridare al mondo che la società fa schifo (ovviamente si parla di quella americana), non risparmiandosi di dire in cosa fa schifo e perchè: “religione e sesso sono giochi di potere / manipolano la gente per i soldi che paga / vendere la carne, vendere Dio / i numeri sono gli stessi sulle carte di credito / I politici dicono di no alla droga / mentre paghiamo per le guerre in Sud America / Combattendo il fuoco con vuote parole / mentre le banche ingrassano / e i poveri rimangono poveri / e i ricchi diventano più ricchi / e i poliziotti sono corrotti / per guardare dall'altra parte / mentre l'uno per cento governa l'America” (da “Spreading the disease”).
Tutto ciò per mezzo di un superbo heavy metal con venature progressive.
Le canzoni dell'album sono tutte bellissime e costituiscono un tutt'uno collegato dalla storia di Nikki, un tossicodipendente che si trova in un ospedale sotto stretta sicurezza, accusato dell'omicidio di diverse eminenze del panorama politico.
“I remember now”: intro in cui Nikki prende coscienza di cosa è successo, dopo un lungo periodo di incoscienza. L'infermiera gli fa una iniezione e lo lascia per la notte (“Sogni d'oro, bastardo”). Inizia il flashback in cui capiremo come Nikki sia finito in questo mare di guai.
“Anarchy-X”: altro intro strumentale in cui in sottofondo si sente un comizio politico del Dr. X, che arringa la folla sui temi dell'uguaglianza (“Questo paese non è più di tutto il popolo, è solo per alcuni!”).
“Recolution calling”: Nikki si racconta nel primo capolavoro dell'album. E' un drogato che per una dose farebbe di tutto, anche uccidere, se per una buona causa. Conosce il Dr. X, che gli fa il lavaggio del cervello dicendogli che “la rivoluzione chiama”.
“Operation: Mindcrime”: Nikki è ormai diventato il prescelto, “l'angelo della morte”, manipolato via telefono tramite suggestione subliminale. Alla parola “mindcrime” (“crimine mentale”) esegue qualsiasi ordine senza ricordarsi assolutamente nulla.
“Speak”: in questo fantastico pezzo Nikki dà una spiegazione “razionale” del motivo per cui si lascia manipolare. Lo fa per l'uguaglianza, la libertà e il bene comune: vuole cambiare il sistema ed è ben felice di essere il mezzo per realizzare questo sogno.
“Spreading the disease”: in cambio dei suoi servizi, il Dr. X ha disposto che sorella Mary gli fornisca “ciò che gli serve” (cibo, droga e sesso). Mary è scappata a sedici anni da casa, finendo per diventare una prostituta che si vendeva per una dose. Viene “salvata” da padre William, che la fa suora e abusa di lei una volta a settimana “sull'altare, come un sacrificio”.
“The mission”: Nikki obbedisce ciecamente agli ordini che gli vengono impartiti, ma il senso di colpa inizia a sopraffarlo, anche se è convinto che il suo fine sia giusto. L'unica cosa che lo aiuta ad andare avanti è l'amore per Mary, che “lava via i suoi peccati”.
“Suite sister Mary”: Mary è troppo vicina a Nikki e ormai sa troppo, così il Dr. X gli ordina di ucciderla. L'ordine non è impartito in modo subliminale, ma direttamente. Così Nikki si dirige sotto la pioggia verso la chiesa e uccide padre Williams. Cerca di convincere Mary a fuggire con lui per aiutarlo a fermare Dr. X, che li ha usati “come ratti in un esperimento”, ma lei è disillusa crede che ormai sia troppo tardi per cambiare vita. Nikki torna a casa e si buca. Nel frattempo Mary in una visione rivede se stessa mentre viene stuprata da padre Williams, il cui posto viene poi preso da Nikki: pensava che fosse la sua salvezza, ma capisce che gli uomini sono tutti uguali e Nikki non fa eccezione.
“The needle lies”: Nikki è disperato e al contempo infuriato con il Dr. X. Vorrebbe smettere di drogarsi e fuggire via, ha le visioni: vede l'ago che “piange il nome di Mary”.
“Electric requiem”: Nikki torna in chiesa e trova Mary morta nella sua camera.
“Breaking the silence”: reso pazzo dal dolore Nikki corre per le strade urlando il nome di Mary e vedendo il suo volto dappertutto. Ad un certo punto viene arrestato: sono tutti convinti che sia lui l'assassino.
“I don't believe in love” è una delle più belle canzoni della storia del rock. Nikki si sveglia all'improvviso sotto l'occhio vigile di una telecamera di sorveglianza. Ha le manette e una benda sugli occhi, non sa dove si trova di preciso, ma sa che non è stato lui ad uccidere Mary. Non saprà mai se lei lo amava veramente e crolla: “non credo nell'amore / non ci ho mai creduto e mai ci crederò / farò finta che lei non sia mai esistita / devo dimenticare il suo viso, lo vedo ancora / non ne vale la pena per il dolore che senti”.
“Waiting for 22” è un brano strumentale di un minuto che collega “I don't believe...” col pezzo successivo.
“My empty room”: Nikki è in una stanza vuota, solo, che si chiede chi cucinerà per lui, chi sarà suo amante, chi sarà suo amico.
“Eyes of a stranger”: accusato di omicidio plurimo, Nikki è recluso in ospedale per disintossicarsi. Soffre di pesanti crisi di astinenza e non si riconosce più nell'immagine riflessa nello specchio. “Ora ricordo”: Nikki capisce tutto e il CD si chiude come è iniziato.
“E QUINDI?! FINISCE COSI'?!”.
Ragazzi, magari finisse così, avrebbe avuto un significato molto più profondo.
Nel 2006 è uscito “Operation: Mindcrime II”, la vendetta.
Negli anni intercorsi i Queensryche hanno cambiato drasticamente sound, prima con album ottimi come “Promised Land” (1992) o “Empire” (1990), per poi assestarsi su un livello di mediocrità, dovuta anche all'abbandono di De Garmo.
“O:M II” è un disco scialbo (salvo due, tre pezzi), noioso e manco lontanamente accostabile al suo illustre prequel. Come evolve la storia? Nikki esce di prigione dopo vent'anni, ritrova il Dr. X, che nel frattempo è diventato un influente uomo politico grazie al lavoro sporco svolto da Nikki, che aveva eliminato la concorrenza, lo insegue (nel pezzo più bello dell'album “The Chase”, in cui Dr. X è interpretato niente di meno che da Ronnie James Dio!), lo cattura, lo uccide. E fin qui siamo alla traccia dieci. Dalla undici alla conclusiva diciassette Nikki si ammazza di pippe mentali francamente difficilmente comprensibili dalla sola lettura dei testi: più o meno si chiede se ciò che ha fatto sia giusto e ripensa a Mary, temendo di averla delusa.
Ci avete provato, Queensryche, ma siete rimasti vittime del vostro stesso mito. Un mito grandioso, splendido e immortale, racchiuso in un semplice album di un'ora.
“O: M” è stato riproposto in chiave live nel fantastico “Operation: Livecrime” prima e nel meno riuscito (a causa della voce di Tate, che purtroppo col tempo non riesce a riproporre i vecchi vocalizzi) “Mindcrime at the moore”, che mette in scena musicalmente e teatralmente sia il primo che il secondo concept.
Avrete notato che non ho parlato quasi per niente della musica, vi spiego perchè con un appunto personale: “Suite sister mary” è l'unica canzone che mi mette letteralmente la pelle d'oca tutte le volte che l'ascolto, mentre il resto dell'album è esaltante come non mai, e penso che questo valga un milione di volte qualsiasi giudizio.

Trentasei anni di carriera e non sentirli. Perchè gli AC/DC calcano il palcoscenico dal 1973, ma ascoltando questo loro ultimo album il tempo sembra non essere passato, a esclusione della tecnologia di oggi, che permette un sound molto più pulito.
Dopo aver venduto oltre sette milioni (stima per difetto rispetto ai dati di vendita di maggio 2008) di copie ed essersi piazzato alla prima posizione in ben ventinove paesi, ottenendo 8 dischi multi-platino, 12 dischi di platino e 4 dischi d'oro, finalmente mi sono deciso a recensire "Black Ice".
Per il lancio dell'album, il 16 Ottobre 2008, il Colosseo di Roma è stato illuminato per un'ora da una proiezione del logo deglla band.
Come sempre questi arzilli australiani fanno le cose in grande, in grandissima.
Tutte le tracce sono a firma dei fratelli Young, ma questo era scontato.
Ad essere sincero erso scettico sulla riuscita di "Black Ice", visto lo iato di ben otto anni dal precedente "Stiff Upper Lip". Ovviamente mi era sfuggito un piccolo particolare: i fratelli Young sono due mostri e gli AC/DC non sono una band qualunque. Di certo anche loro hanno sfornato dischi non certo memorabili (uno su tutti "Fly On The Wall" del 1985), ma stavolta hanno decisamente centrato il bersaglio. Di nuovo.
Si parte sul "Rock N' Roll Train", che macinerà chilometri nel vostro lettore per quanto la riascolterete. Primo singolo estratto e nuovo classico. Classica ritmica semplice ma trascinante come non mai. Personalmente credo che gli AC/DC non componessero una canzone a questi livelli dai tempi di "Thunderstruck" (dall'album "The Razors Edge", 1990). La cruda voce di Brian Johnson (che ricordo ha sostituito il grandissimo Bon Scott nel 1980, dopo che quest ultimo morì in macchina soffocato dal suo stesso vomito. Yuck.) vi trascinerà in un viaggio blues 'n' roll che dimenticherete solo una volta morti.
"Skies on fire" è di una semplicità spiazzante, sa di già sentito in modo assurdo, ma, cazzo, è fantastica. Tipico degli AC/DC: fanno le stesse cose da quasi quarant'anni, ma sono talmente bravi che li si può solo ringraziare e sperare che non cambino mai!
Altro centro piazzato con "Big Jack", trascinante e dalle ritmiche serrate. Tipico riff stoppato alla AC/DC e ritornello a dir poco da stadio.
Con "Anything goes" i nostri piazzano il primo pezzo vacillante dell'album, a causa del riff poco ispirato e dalla melodia decisamente pensata per piacere anche a chi gli AC/DC non sa manco chi sono (ma esiste gente del genere?).
"War machine" getta carbone nella caldaia della locomotiva e si accellera da pazzi. Dopotutto con un titolo del genere c'era da aspettarselo.
"Smash 'N' Grab" è un mid-tempo da ascoltare a palla scolandosi una bottiglia di Jack Daniel's.
"Spoilin' for a fight" ha un riff assolutamente fantastico, trascinante, che vi porterà alla mente il caro vecchio Angus Young e la sua tipica camminata.
Con "Wheels" si torna sull'ultra classico, con il suo riff e il suo ritornello molto anni ottanta.
"Decibel" col suo ritmo quasi sincopato vi farà scapocciare pur non essendo una canzone potentissima.
"Stormy May Day" è uno dei migliori blues and roll che abbia mai sentito. Uno spettacolo di canzone, dalla prima all'ultima nota.
Quando ho ascoltato per la prima volta "She likes rock 'n' roll" m'è venuto un magone alla gola: erano secoli che non sentivo un rock and roll classico, trascinante e sessuale come questo.
"Money made" è un altro mid-tempo che rallenta per un attimo la corsa e vi introduce alla sognante "Rock 'n' roll dream" (mettetecelo ogni tanto "rock 'n' roll" nei titoli delle canoni, eh!).
L'inizio di "Rocking all the way" ricorda vagamente il riff centrale di "You've got another thing coming" dei Judas Priest. Giusto l'inizio, perchè poi diventa 100% AC/DC, anche se sinceramente mi sembra il secondo pezzo meno riuscito del platter.
In ultimo, largo alla title-track, riff azzeccatissimo vagamente Aerosmith e ritornello strappa orecchie. Black ice!
Morale della favola: se dopo otto anni è questo il risultato, sono disposto ad aspettare anche di più.
Il "Black Ice Tour" ovviamente è andato tutto esaurito nel giro di pochi minuti (sì, minuti!), tanto da costringere gli AC/DC ad aggiungere diverse date.
Però dopotutto, soprattutto con un album del genere, c'era da aspettarselo.
venerdì 10 luglio 2009

Chi ha detto che la rabbia non porta nulla di buono? Sammy Hagar (voce) se ne andò (o venne cacciato?) dai Van Halen dopo che questi incisero alcuni pezzi inediti con David Lee Roth, che li aveva abbandonati dopo "1984". Michael Anthony (basso), dopo 31 (primo album nel '78) anni di onorata carriera nei Van Halen, è stato rimpiazzato da... Wolfgang Van Halen, il figlio di Edward: se non è nepotismo questo! Ora potete anche farci credere che non vi importa, che siete superiori, che è acqua passata: bravi, così si fa. Però non ci venite a dire che in parte questo progetto non è nato anche dal fatto che vi rodeva il culo. Perchè per un side project non si chiamano Joe Satriani (chitarra) e Chad Smith (batterista dei Red Hot Chili Peppers).
Massì, ma chi se ne frega, dopotutto è la musica che ci interessa, non il gossip!
E qui dentro c'è musica di alta qualità.
Tutte le canzoni sono composte da Satriani e Hagar, tranne dove lo indicherò.
"Avenida Revolution" vi catturerà sin dalle prime battute, con una sezioe ritmica che si scalda per esplodere nel ritornello.
"Soap on a rope" è fantastica, anche se personalmente l'avrei accorciata di un minutino scarso, vista la ripetitività del riff.
"Sexy little thing" vi stamperà 'anni 80' sulla fronte. Struttura classica e riff quanto mai originale.
"Oh yeah". Solo il titolo dice tutto. Groove spinto a mille per il primo singolo estratto.
Si smorzano leggermente i ritmi con "Runnin' out", semplice e indimenticabile.
"Get it up" riaffonda il piede sull'acceleratore col suo riff vagamente orientaleggiante e misterioso e il suo ritornello da headbanging.
"Down the drain" (composta dall'intera band) inizia con un arpeggio che ben presto sfocia in uno dei riff più malati di tutto l'album. Wow.
"My kinda girl" è smaccatamente stile Van Halen, anche se solo dal riff non si direbbe. E sti cazzi, è un pezzone di hard blues robustissimo!
"Learning to fall" è la classica, immancabile, trascinante ballad. Peccato sia poco originale.
"Turnin' left" è l'ennesimo centro pieno. Personalmente quando parte non posso fare a meno di dimenarmi come un deficiente.
Con lo stupendo funk blues di "Future in the past" (composta dall'intera band, anche se si sente più marcatamente l'influenza di Chad Smith) si chiude questa esperienza, perchè quest'album è un'esperienza.
Esperienza che si prolunga di una traccia ("Bitten by the wolf" di Hagar/Satriani/Smith: ennesimo colpaccio costituito da un blues sanguigno e massiccio) se avete acquistato l'album su iTunes.
Vi sarete chiesti: "ma neanche una parola sugli assoli di Satriani"? No, perchè per fortuna il nostro amato professore ha saputo restare al suo posto nella sua prima esperienza in una vera e propria band, senza sbrodolarci gli ammenicoli con brodosi assoli superflui.
Vera sorpresa dell'album è Chad Smith, che picchia come un dannato! Chi lo avrebbe mai detto, avendolo sempre e solo ascoltato cimentarsi con le ritmiche funk dei Red Hot!
Stavolta la definizione di "supergruppo" combacia perfettamente col mio giudizio di "superalbum".

Oh, dimenticavo: Satriani assicura che "chickenfoot" non ha niente a che fare con le zampe di gallina che oramai segnano i volti dei notri eroi!

giovedì 9 luglio 2009

Avevo una strana sensazione riguardo a questo disco, ancor prima di ascoltarlo: sì che un libro non si giudica dalla copertina, ma un elefante su una pila di libri, un corvo che si avventa su un cavalletto con dipinto l'occhio di Dio, un bambino che apre una porta su uno sfondo stile "The Truman Show" e un generale senso di deja-vu (il tutto ricorda la copertina di "Awake" del 1994), non sono simbolismi arcani, sono elementi messi a cazzo.
Ma vabè, sarò io che non capisco l'arte.
Fino ad oggi i Dream hanno saputo deliziarci con album che avevano tutti un'anima, qualcosa da dire, anche se non erano tutti originalissimi (vedi "Octavarium" del 2005 e "Systhematic Chaos" del 2007).
Ed eccoci qua, con questo...questa...COSA tra le mani. Sì, perchè definire questo un LP (Long Play) mi pare eccessivo. Oddio lungo è lungo, è il contenuto che manca.
Il numero di canzoni cala drasticamente a 6, per una durata complessiva di 74 minuti. Molta carne al fuoco o solo fumo? Analizziamo caso per caso, come nostra abitudine.
"A nightmare to remember" è sì un incubo, ma da dimenticare. Ai tempi di "Six degrees of inner turbulence" (2002) i Dream in 14 minuti ti confezionavano un capolavoro immortale come "The glass prison", ora in 14 minuti ti confezionano una sequela di growl (messaggio per Mike Portnoy, batterista: lascia perdere il growl, non sei capace), riff strasentiti, e una cattiveria sonora francamente fuori luogo.
"A rite of passage" quando inizia sembra prendere col suo riff sincopato, ma si rivela anch'essa banale durante l'ascolto, nonostante l'accelerata finale. Personalmente odio il ritornello, ma conosco persone a cui di tutta la canzone piace solo quello. De gustibus. Almeno ha una durata decente, "solo" otto minuti.
"Wither" è il classico pezzo messo lì per le radio (cinque minuti), che poi non lo passano comunque.
"The shattered fortress" è il capitolo conclusivo della 'saga dell'alcool' (dodicesimo ed ultimo episodio che parla dei problemi con l'alcool di Portnoy) ed è un medley autocelebrativo degli episodi precedenti. Insomma, 13 minuti di riempitivo inutile.
Prima di gridare al miracolo per "The best of times", sappiate che, oltre a iniziare come un pezzo di "Octavarium", ci sono scopiazzature di "The spirit of radio" dei Rush e dei passaggi che assomigliano SPAVENTOSAMENTE a "La fisarmonica" di Gianni Morandi e a "Parsifal" e "Uomini soli" dei Pooh! Fateci caso. Gradevole plagio da 13 minuti.
Alleluja. Alleluja. Alleluja. Finalmente una canzone degna, non fntastica, ma degna. "The count of tuscany" poteva benissimo durare meno di 20 minuti, ma non cerchiamo il pelo nell'uovo, soprattutto se è l'unico uovo a non essere marcio. Finalmente degli spunti originali e DAVVERO progressive. Melodia accattivante che vi entrerà facilmente in testa (anche se solo dopo diversi ascolti, vista la lunghezza della canzone).
Inoltre in tutto l'album si sente un calo generale di James La Brie (voce), sia in potenza che in tonalità: scelta voluta o scelta forzata dai suoi problemi alle corde vocali? Solo il tempo ce lo dirà.
Concludo citando il mio amico Albo, grande appassionato di progressive e di musica in generale, che ha snocciolato i seguenti consigli per i Dream Theater:
"1) Levare il microfono a Mike Portnoy o magari andare proprio da lui e urlargli: NO, NON SAI CANTARE E NON SAI FARE GROWL. PUNTO.
2) Fare sbattere la testa a John Petrucci (chitarrista, NDR), magari nello stesso modo di quando l'ha sbattuta , da un po' di anni a questa parte.
3) Prendere in considerazione che John Myung (bassista, NDR) ESISTE: si , perchè non fa un bel tubo in questo cd e mi sembra l'unico rimasto con un barlume di cervello lì dentro.
4) Eliminare Jordan Rudess (tastierista, NDR): sì, levarlo da questo gruppo, concedergli una parte in qualche lavoro OUT Dream Theater. Nulla togliendo alle sue capacità, ma fa sempre 'na cosa. Ha rotto il cazzo.
5) Prenderli tutti e cinque e fargli ascoltare cento volte "Images and Words" (loro album del 1992, NDR) e "Awake", e in qualche modo cercare di rimuovere dalla loro testa gente come i Muse, i Metallica, gli Aerosmith, gli U2 e Joe Satriani."
Grande Albo!

Versione di "A rite of passage" mutilata per la TV e le radio.
sabato 4 luglio 2009

OOOOH, finalmente un album dei Mötley Crüe con la line-up classica dei Mötley Crüe!
Era dallo scialbo "Generation Swine" (2000) che Vince, Nikki, Tommy e Mick non suonavano tutti assieme su uno studio album!
Inoltre dopo anni (sembrano secoli...) di attesa un album dei Mötley degno di questo nome, anche se ovviamente non abbiamo fra le mani "Dr. Feelgood II".
Inizialmente l'album doveva chiamarsi "The Dirt", come la loro omonima, folgorante autobiografia. Pur avendo cambiato il titolo, le canzoni sono ispirate al libro, come dichiarato da Nikki Sixx: "Ogni canzone è come una mini-storia, che puoi "attaccare" al libro".
Dopo l'intro "L.A.M.F." si parte con "Face down in the dirt" che con il suo intro 'It's a dirty job, but someone's gotta do it' segna il ritorno in pompa magna dei cattivi ragazzi per eccellenza del rock.
"What's it gonna take" smorza leggermente i ritmi rivelandosi un pezzo che non avrebbe sfigurato su "Dr. Feelgood".
Con "Down at the Whisky" si continua a scapocciare col pensiero vagante per le strade di Hollywood degli anni '80.
"Saints of Los Angeles" si rivela un'ottima canzone, anche se richiede più di un ascolto per essere goduta appieno.
Ragazzi, che cos'è "Motherfucker of the year"! Canzoni così ormai non se le aspettava più nessuno da questi quattro sbandati!
"The animal in me" fa storcere il naso in più di un'occasione... incerta.
Tommy parte a razzo su "Welcome to the machine", decisamente il pezzo più veloce dell'album. Forse una prestazione vocale un po' più tirata da parte di Vince avrebbe reso questo pezzo un classico.
"Just another psycho" si lascia ascoltare con piacere, ma è riuscita solo a metà.
"Chicks=Trouble". E se lo dicono loro potete crederci! Altro pezzo in cui Vince poteva dare molto di più.
Secondo capolavoro: "This ain't a love song". Semplicemente fantastica, anche se si sente il tocco compositivo di Tommy Lee con quei cazzo di campionamenti elettronici e suoni da musica techno. Per fortuna non hanno esagerato!
"White thrash circus" ri corda molto gli Hardcore Superstar di "Dreaming In A Casket", purtroppo non arrivando affatto a quei livelli. Godibile, ma nulla più.
Si chiude in bellezza con "Goin' out swinging", canzone molto old-style. Peccato per le parti vocali delle strofe, abbastanza spente, perchè il ritornello è qualcosa di grandioso!
Nonostante l'acronimo del titolo (S.O.L.A.) alzate le braccia al cielo e ringraziate, perchè avreste potuto avere l'ennesimo album di merda made in Mötley Crüe (ovviamente periodo post-feelgood), invece avete un disco tutto sommato fresco e piacevole, anche se i fasti di un tempo sono irraggiungibili: si sa, quando hai tutto dalla vita e hai raggiunto una certa età, l'ispirazione tende a calare.