domenica 25 ottobre 2009

Inarrestabile Blackie Lawless, che dopo quindici anni di carriera e quattordici studio album, riesce ancora a produrre musica di qualità.
Sì, perché questo "Babylon", album che ruota sulla figura dei quattro cavalieri dell'apocalisse, è il degno successore dell'incredibile "Dominator" del 2007, che fece saltare i fan, ma soprattutto gli scettici, sulle loro sedie.
Dopo un lungo periodo in cui l'ispirazione sembrava avergli voltato le spalle (più o meno da "Still Not Black Enough" del 1995 a "The Neon God, Part 2: The Demise" del 2004) il caro vecchio Blackie, fondatore, leader, cantante e chitarrista dei W.A.S.P., sembra essere tornato per dimostrarci che il suo tempo è ancora lungi dall'essere concluso.
"Babylon" è un lavoro fresco, magari non originalissimo, ma è esattamente quello che ogni fan dei W.A.S.P. può desiderare. Sulla falsariga di "Dominator", Blackie ci propone sette nuove canzoni da urlo, più due cover (maledetto viziaccio delle cover! Ne sono veramente necessarie ben due in un disco con sole sette nuove canzoni?!), che richiamano alla mente quel periodo d'oro della band in cui sfornava capolavori come "The Headless Children" (1989) o il fantastico concept "The Crimson Idol" (1992).
Si parte subito in quarta con l'ispirata "Crazy", in cui il trascinante chorus la fa da padrone, in una hard rock song riuscitissima.
"Live To Die Another Day" è classicamente W.A.S.P.: riff diretto e ritornello strappaorecchie, da cantare in una decappottabile lanciata sulla route 66. Fantastica. Indistinguibile lo stile delle percussioni W.A.S.P.
Epicità è la parola d'ordine di quella cavalcata metallica che risponde al nome di "Babylon's Burning", probabilmente il pezzo migliore dell'album, perfetto dalla prima all'ultima nota e condito da un assolo fantastico.
Segue la prima delle due cover, ovvero "Burn" (originariamente registrata per l'album "Dominator", ma poi esclusa): bella carica, ma di certo per merito esclusivo dei Deep Purple. Molto meglio l'originale.
"Into The Fire" è un mid tempo che vorrebbe risultare evocativo, ma risulta un po' spento a causa della banalità della sua struttura.
Altissimi livelli invece per "Thunder Red", un assalto frontale a base di rock sanguigno e sessuale, dritto in faccia. Fantastica e casinista!
Provate a tuffarvi nei "Seas Of Fire", se ne avete il coraggio. La vostra colonna sonora sarebbe questa grande canzone, stavolta più tendente al metal che al rock, in un crescendo di pathos che culmina in un solo spot stupefacente e in un bridge finale cattivissimo.
L'ultimo pezzo originale è la pazzesca ballad elettrica "Godless Run", veramente da brividi. Da ascoltare a palla soprattutto per i suoi super assoli che riportano alla mente quelle monster ballad di fine anni '80, inizio '90, che ci emozionano ancora oggi.
Si chiude con "Promised Land", cover di Chuck Berry incattivita dai W.A.S.P. fino a renderla quasi irriconoscibile. Evoluzione o cover evitabile? A voi l'ardua sentenza.
Un ottimo album in pieno stile W.A.S.P., che contiene tutti gli ingredienti per essere apprezzato anche in sede live e con l'unica pecca delle cover-riempitivo, chiaro espediente per coprire lo scarso numero di inediti.
I W.A.S.P. saranno il 23 Novembre all'Estragon di Bologna e il 24 Novembre all'Alcatraz di Milano: visti gli ultimi due esplosivi lavori e considerando la spettacolare teatralità dalle tinte horror dei loro spettacoli, fateci un pensierino!
sabato 24 ottobre 2009

Per festeggiarne la reunion propongo la recensione dell'album migliore della all star band chiamata Mr. Big.
I Mr. Big sono infatti composti da quattro mostri, tecnicamente parlando: Eric Martin (voce, canta anche nella sua band, i Twin Dragons), Paul Gilbert (chitarra, suona anche nei Racer-X), Billy Sheean (definito "il Van Halen del basso", ex David Lee Roth e duemila altre band) e Pat Torpey (batteria, ha suonato anche con Chris Impellitteri). Negli ultimi due album della band Gilbert fu sostituito con Richie Kotzen, con conseguente radicale cambio di sound.
I Mr. Big nascono nel 1988, dopo la dipartita di Sheean dalla David Lee Roth band: con l'aiuto del produttore Mike Varney contatta gli altri futuri membri per iniziare un progetto partito con l'intenzione di fare il botto.
La notorietà non arriva subito come sperato e il primo album, il validissimo "Mr. Big" del 1989, sbanca in Giappone, ma stenta a imporsi nel resto del mondo. Il successo in oriente garantisce comunque alla band il ruolo di opener nel tour americano dei prog rocker Rush nel 1990.
Nello stesso anno arriva il disco che sdogana i Mr. Big al grande pubblico, "Lean Into It", caratterizzato da un hard rock (o se preferite "AOR", ovvero "Adult Oriented Rock") semplicemente allo stato dell'arte. L'accattivante copertina ritrae un dettaglio di una foto scattata dopo il deragliamento di un treno nella stazione Gare Montparnasse di Parigi, nel 1985.
L'album contiene due canzoni che ne hanno decretato il successo, diventando famosissime grazie a passaggi in radio un po' dappertutto. Entrerò nei dettagli in sede di recensione.
Apre le danze la famosissima "Daddy, Brother, Lover, Little Boy (The Electric Drill Song)" che, dopo una partenza soffusa, ti colpisce in faccia col suo riff geniale. La vera particolarità della canzone è l'assolo: Paul Gilbert e Billy Sheean a un certo punto iniziano a pizzicare le corde lei loro strumenti con un trapano che monta dei plettri sulla punta! E non è solo una sboronata in studio, lo fanno anche nelle esibizioni live! Quando si dice la precisione e la mano ferma.
Segue la bellissima "Alive And Kickin'", la mia preferita dell'album, classico hard rock che si pone di diritto fra le migliori canzoni del genere.
"Green-Tinted Sixties Mind" parla di una ragazza che vive come se si trovasse negli anni sessanta. Il 'green' del titolo si riferisce, come spiegato nelle note dell'album, alla tinta verdognola che hanno le immagini dei film degli anni '60. Boh, se lo dicono loro! Il pezzo si apre con un'introduzione spettacolare che colpisce subito e si dipana in un tappeto musicale accattivante e originale.
Il 'CDFF' presente nel titolo di "CDFF - Lucky This Time" si riferisce al 'fast forward' (avanti veloce) degli allora neonati lettori CD, ed è giustificato dall'originale inizio della canzone, che potrebbe mandare nel panico chi non legge il titolo, ovvero il classico 'rumore' che si sente durante l'avanzamento veloce del CD. Per la cronaca, la canzone che sentite in quel frangente è la roboante "Addicted To That Rush" dell'album "Mr. Big". Il pezzo è una stupenda ballad semi acustica.
Un assolo acustico ci introduce alla fantastica "Voodoo Kiss", il mio secondo pezzo preferito, che col suo ritmo stoppato si rivela fresca e originale.
La cadenzata "Never Say Never" ci delizia con un ritornello impossibile da non cantare a squarciagola e ci accompagna fino alla traccia seguente, il secondo singolo estratto "Just Take My Heart": semplicemente la ballad più bella che abbia mai sentito in vita mia. Se ne consiglia l'ascolto a tutto volume assieme alla vostra anima gemella. Poeticamente stupendo il ritornello: "Prendi il mio cuore quando te ne vai, semplicemente non ne avrò più bisogno".
"My Kinda Woman" ci riporta su terreni più accidentati con la maestria ormai accertata dei Mr. Big.
Parte soffusa, calda e avvolgente "A Little Too Loose", per poi prorompere in una eruzione da oscar di blues contaminato con hard rock.
Siamo quasi in chiusura con la scoppiettante "Road To Ruin", canzone sui problemi 'di cuore' composta da Pat Torpey. Epici i trascinantissimi cori smaccatamente anni '80.
Si chiude con la ballata, primo singolo estratto, che ha trainato l'album dalle stalle alle stelle: "To Be With You". Dannatamente bella, seppur inferiore a "Just Take My Heart", possiede un innegabile feeling più commerciale che ne ha decretato il successo mondiale. Un anno fa ero in un centro commerciale e l'ho sentita nella radio di un negozio di alimentari, giusto per farvi capire il grado di fama raggiunto che le ha consentito non solo di promuovere alla grande l'album, ma anche di sopravvivere fino ai giorni nostri!
Nella versione giapponese c'è la tipica bonus track, "Love Makes You Strong", che a dispetto del titolo è un rock rocambolesco sparato a mille, anche se decisamente di minor valore artistico rispetto al resto del disco. Insomma, una chiusura extra movimentata per i fratelli giappo che tanto amano questa grande band.
Negli anni seguenti i Mr. Big pubblicano (oltre che un sacco di live, spesso inutili) gli album "Bump Ahead" (1993, contiene l'allucinante "Colorado Bulldog" e la cover 'da traino' di "Wild World" di Cat Stevens) e "Hey Man" (1996, orientato su sonorità più soft rispetto al passato), ottenendo una popolarità sempre crescente, ma solo in Giappone. Problemino che, assieme a discordie fra i membri della band, porterà allo scioglimento nel 1997 in seguito all'abbandono di Paul Gilbert.
Ingaggiato Richie Kotzen nel 1999, i nostri tornano in pista con dischi non sempre all'apice quali "Get Over It" (2000) e "Actual Size" (2001), per poi sciogliersi di nuovo nel 2002, dopo la pubblicazione del loro settimo (!!!) e ultimo live, "Live In Japan".
Nel 2009, in seguito alle pressioni dei fans e in occasione del ventennale della band, i Mr. Big sono tornati con la formazione originale per intraprendere un tour mondiale che ha recentemente toccato anche l'Italia e ha definitivamente chiarito l'amore del pubblico di tutto il mondo per una delle migliori band della storia del rock.
Ci dobbiamo aspettare un nuovo album? Per ora non ci sono dichiarazioni ufficiali, ma visto il clima di reunion che ha coinvolto molti gruppi storici negli ultimi anni, ritengo (e spero) che sia molto molto probabile.
Nel frattempo deliziamoci pure con il loro vecchio, grande, vasto repertorio.
venerdì 23 ottobre 2009

Richie chi?
Mr. Kotzen è uno dei chitarristi con le palle quadrate meno conosciuti, pur vantando partecipazioni in band famosissime quali i Poison (nell'album "Native Tongue" del 1993, forse il migliore della band, proprio grazie a Richie... che poi è stato cacciato perchè s'è pompato la moglie del batterista, ma son dettagli!) e i Mr. Big, oltre che una carriera solista ventennale decisamente invidiabile.
Dopo il fantastico "Return of the Mother head's family reunion" (2007), Richie ci delizia con il raffinato "Peace Sign", in cui affina ulteriormente il suo songwriting per andare a toccare l'animo dell'ascoltatore in modo ancora diverso rispetto a come fatto in passato. Sì, perchè il vecchio Richie riesce a spaziare abilmente dal rock al metal passando per la fusion (incredibile l'album "Tilt" del 1995, registrato assieme ad un altro mostro della sei corde quale Greg Howe).
In quattro pezzi dell'album suona tutti gli strumenti tranne la batteria e, come se non bastasse, ha una voce da paura, e lo dimostra benissimo anche in "Peace Sign".
Apre le danze "My Messiah", rockettara e blueseggiante come da trademark Richie Kotzen. Come molte delle sue canzoni possiede una venatura vocale soul che contribuisce a coinvolgere l'ascoltatore nella solo apparentemente grezza trama musicale.
"Paying Dues" è la classica canzone allegra e sopra le righe che potete trovare in (quasi) tutti gli album di Richie. Semplicemente spumeggiante, è il singolo estratto per promuovere l'album. Che voce, ragazzi, che voce! L'ho visto live due anni fa e vi assicuro che è da far accapponare la pelle per quanto è bravo!
"Best Of Times" ha un ritmo che prende subito e non ti lascia fino alla fine.
"Lie To Me" è la tipica ballad alla Richie Kotzen, non molto diversa da quelle scritte in passato, ma non per questo meno emozionante.
Il riff blues super-malato è ciò che caratterizza la title track, che è fatta apposta per scatenarsi un po'.
Sonorità vecchio stile per la fantastica "We're All Famous" e i suoi assoli semplicemente fuori dal normale.
E' la volta della spettacolare e cadenzata "You Got Me", altro pezzone che precede l'ancor più fantastica "Long Way From Home".
Ancora una ballad sopra le righe ("Catch Up To Me") e poi di nuovo giù di blues con la frizzante "Your Entertainer".
Nuovo break semiacustico con "Larger Than Life" seguita a ruota dalla rilassantissima e commovente "Holding On". Che classe!
Si chiude con una cover dei Jackson 5, la spumeggiante "I Want You Back".
Un artista che non finisce mai di stupire e che sembra non avere limiti di creatività.
Se vi è piaciuto questo album, lasciate che vi indichi qualcos'altro nella sua sterminata discografia: "Mother Head's Family Reunion" (1994), "Get Up" (2004) e "Return Of The Mother Head's Family Reunion" (2007) sono indubbiamente i migliori.
Se preferite sonorità più soft puntate su "Something To Say" (1997), mentre per i fans di chitarristi come Malmsteen o Marty Friedman, rispolverate il velocissimo "Electric Joy" (1991).
Ricordatevi questo nome: Richie Kotzen, un artista spettacolare per tutti i gusti.

Per chi non li conoscesse, i Primal Fear vengono fondati dal Ralf Scheepers (Voce), quando, dopo aver lasciato i Gamma Ray di Kai Hansen, scopre di non essere stato scelto dai Judas Priest per sostituire Rob Halford dopo la sua dipartita.
Ecco, praticamente i Primal Fear sono i cloni tedeschi dei Judas Priest e dal 1998 sfornano con una certa regolarità degli album di heavy metal classico che devono quasi tutto al seminale "Painkiller" (1991, Judas Priest, appunto).
Intendiamoci, i Primal Fear hanno una discografia invidiabile in quanto a validità, la loro unica pecca è la mancanza di un quid che li distinguerebbe dal loro gruppo di ispirazione e dal resto della massa delle bands di heavy metal classico.
Proprio a questo punto debole cercano di porre rimedio con "16.6 (Before The Devil Knows You're Dead)", il loro ottavo studio album. Per quanto riguarda il titolo, i membri della band hanno detto che non riveleranno cosa significa, anche se la "P" è la sedicesima lettera dell'alfabeto latino e la "F" è la sesta (16.6; P.F; Primal Fear?). Sinceramente però mi sembra troppo idiota come soluzione.
In questo album Mat Sinner, bassista e principale compositore, dà il meglio di sè, assieme ai colleghi Randy Black (batteria), Henny Wolter (chitarra) e Magnus Karlsson (chitarra), il nuovo arrivato che sostituisce per la prima volta Stefan Leibing.
Tutto l'album è permeato da un'atmosfera più epica rispetto alla semplice brutalità del passato, e ciò è un bene, perchè contribuisce a donare il quid di cui sopra.
Si parte con l'intro "Before The Devil Knows You're Dead", che dopo una quarantina di secondi composti da cori e orchestrazioni cede il passo alla prima vera canzone, "Riding The Eagle". L'aquila è un tema ricorrente nell'iconografia dei Primal Fear: campeggia su ogni copertina, e il fatto che su quella dell'ultimo album sia cammuffata, a detta della band è un ulteriore tentativo di innovazione.
Ma torniamo al pezzo. Un riffone dalle tinte power metal ci accompagna in un pezzo che sembra rubato ai Gamma Ray più ispirati. Assolo decisamente coinvolgente. Ottimo pezzo, ma non risolve il problema dell'originalità.
Riff pesante come un macigno per "Six Times Dead (16.6)", decisamente ispirata e portatrice di un'aria nuova in casa Primal Fear, anche grazie al malatissimo assolo. Headbanging assicurato.
Pertenza orientaleggiante per "Black Rain", stupendo pezzo che parla dei tradimenti in guerra passando dall'epicità dell'intro e dei bridge al ritornello tanto semplice quanto trascinante. Solo spot ottimamente costruito sia come inventiva che come ritmiche.
"Under The Radar" esalta con il suo feeling da cavalcata, ma la puzza di Gamma Ray si sente lontana un miglio. Comunque ottima canzone.
Assolo fulminante in partenza per "5.0/Torn", che prosegue in modo spettacolare e con un'anima progressive ispiratissima che cede il passo allo stile Primal Fear solo nel ritornello. Bending e armonici a manetta.
"Soar" è incazzatissima dal primo secondo! Ottima canzone, peccato solo per la banalità dei temi trattati: esplosioni nucleari, guerre e...il 2012. E' anche la più sperimentale dell'album, come testimoniato dalla parte centrale.
"Killbound", che parla di una legione di mercenari, sembra uscita da "Jugulator" dei Judas Priest per feeling, sonorità, impostazione del cantato ecc. Ancora un ottimo esempio di heavy metal.
"No Smoke Without Fire" è caratterizzata da atmosfere mai banali e di sicuro impatto, proprio quello di cui ha bisogno l'album.
Ancora power metal teutonico a farla da padrone in "Night After Night".
Si parla di vendetta con l'ispirata "Smith & Wesson", una fucilata sonora nelle orecchie. Decisamente riuscita.
Indovinate di cosa potrebbe trattare "The Exorcist"? Bravi. La musica è definibile, molto semplicemente, con una citazione abatantuoniana: "VIULEEEEEEEEEEEEEENZ'!!!".
La stupenda ballad "Hands Of Time" sfodera l'anima tenera della band, chiudendo ottimamente un disco altrettanto ottimo.
Si apprezzano gli sforzi di innovazione del sound, ma si può fare di più.
In definitiva un bell'album di metallo classico tendente al power, senza troppe pretese, che punta a soddisfare i palati dei fans senza riproporre pedissequamente la stessa (egregia) solfa degli album precedenti.
mercoledì 21 ottobre 2009

"Somic Boom: il boato generato dal superamento della velocità del suono."

L'ultima intervista a Gene Simmons (bassista dei KISS) che ho letto su Metal Maniac non lasciava spazio a dubbi: i KISS non avrebbero mai più inciso un album in studio e si sarebbero concentrati solo ed esclusivamente sulle release dei vari DVD. Il motivo? A fare un nuovo album ci si sarebbe guadagnato di meno rispetto al proporre DVD, parola del genio del marketing Gene Simmons.
Con la tristezza nel cuore (l'ultimo loro album "Psycho Circus", del 1998, era davvero buono! Sono già passati 11 anni?!) mi ero rassegnato a questa dichiarazione.
Mai fidarsi di una rock star.
Agosto 2009: viene rilasciato il primo singolo tratto dal nuovo album, "Sonic Boom". E la folla impazzisce. Il singolo, "Modern Day Delilah", è veramente uno spettacolo e sembra proprio segnare il ritorno alle sonorità del primo periodo dei KISS, ovviamente aggiornate agli standard di oggi.
2 Ottobre 2009: esce (in Italia, il resto del mondo vedrà la release qualche giorno più tardi, a seconda del paese...evvai!) "Sonic Boom".
Dopo una rapida occhiata alla copertina (di Michael Doret, autore della copertina di "Rock And Roll Over" del '76, e si vede) e subito ti accorgi che chiunque si occupi del marketing ci sa fare, eccome se ci sa fare: la scatola non contiene solo il nuovo CD, ma anche una raccolta di pezzi classici riregistrati (prima disponibile solo in Giappone sotto il nome di "Jigoku-Retsuden") e un DVD live contenente sei pezzi storici! Un vero scrigno del tesoro per ogni appassionato!
"Sti cazzi, chi se ne frega dei pezzi vecchi e dei DVD live! Se hanno fatto una cosa del genere vuol dire che il CD fa cagare!", penserà qualcuno. Beh, si sbaglia.
Questo è uno dei migliori album dei KISS da "Love Gun" (1979)!
In apertura troviamo il singolone sopra citato, "Modern Day Delilah": rimarrà ai posteri come una delle migliori canzoni dei KISS. Appena schiaccerete "play" vi troverete catapultati negli anni d'oro della band, con un riff DAVVERO rock e un Tommy Thayer (chitarra) che non fa affatto rimpiangere quell'Ace Freheley di cui porta la maschera. L'unico elemento che fa capire che Paul Stanley (voce e chitarra) è invecchiato è il falsetto un po' tirato che esibisce in un paio di occasioni. Eric Singer (batteria) non delude come al solito, anzi. Composta da Stanley, possiede un ritornello acchiappante come pochi e difficilmente dimenticabile già dopo il primo ascolto.
E' la volta di Gene al microfono, che ci propone la sua "Russian Roulette", vero anthem da stadio. Pur di livello inferiore (Paul Stanley alla composizione non lo freghi!) riesce a reggere bene il confronto col pezzo d'apertura. Solo a me una parte del riff ricorda spudoratamente l'inizio di "Breaking All The Rules" dei Wig Wam ("Wig Wamania", 2006)?
Il duo Stanley/Thayer ci regala l'incredibile "Never Enough", ancora una volta una canzone vecchio stile e ancora una volta centro completo per i KISS.
Anche Simmons sfodera gli artigli con la successiva "Yes I Know (Nobody's Perfect)", uno dei pezzi migliori dell'album. Grande chorus, bel riff tipico dei KISS. Impossibile non prorompere in un poderoso "Yes I Know!...Yes I Know!" dal secondo ascolto in poi!
Finalmente all'opera la premiata ditta Stanley/Simmons con "Stand", dal ritornello ruffianissimo e decisamente palloso. Peccato, perchè la canzone è globalmente ottima.
E' di nuovo il turno di Gene con "Hot And Cold": wow. Farà sfaceli in sede live, garantito. Gran ritmo ed ennesimo ritornello irresistibile. Stupendo il bridge finale.
"All For The Glory" (Stanley/Simmons) è una dichiarazione di intenti. Vi cetturerà sin dai primi secondi e sin dal primo ascolto. Ancora una volta ritornello da stadio.
"Danger Us" by Paul Stanley è un altro fottutissimo centro: riff spettacolo e (indovinate un po'?) chorus da oscar.
"I'm An Animal" (Stanley/Simmons/Thayer) incattivisce quanto basta l'atmosfera. Cadenzata e malefica, uno dei pezzi migliori.
Siamo quasi alla fine con "When Lighting Strikes", pezzo composto da Thayer e Stanley. Devo dire che Thayer ci sa davvero fare, sia come compositore che come esecutore. Bellissima.
La Stanleyana "Say Yeah" chiude un album fantastico con una struttura e sonorità decisamente più pop rispetto al resto dell'album. Ancora più easy listening del resto (era difficile, ma i KISS possono tutto).
L'unica critica che si potrebbe proporre a quest'album è la somiglianza fra le canzoni, che va oltre il fattore "filo conduttore". Ma sarebbe proprio andare a cercare il pelo nell'uovo.
Compratelo, fatevelo regalare, fate come cacchio vi pare: "Sonic Boom" è da avere ad ogni costo. Anche se dovremo aspettare altri undici anni per l'album successivo, nel frattempo avremo da divertirci. ALLA GRANDE.

La Svizzera è neutrale? Non nel rock! I Gotthard sono uno dei gruppi più importanti dell'hard rock moderno e ce lo hanno dimostrato più di una volta con album spettacolari (fra tutti "Gotthard" del 1992, "Dial Hard" del 1994, "G." del 1995 e soprattutto l'incredibile "Lipservice" del 2005).
Ci avevano lasciati leggermente perplessi col cupo "Domino Effect" (2007), da alcuni ritenuto un capolavoro, da altri un passo indietro che riportava i Gotthard al periodo di transizione pre-Lipservice.
Tornano oggi con "Need To Believe", album altalenante ma di miglior fattura rispetto al precedente.
"Shangri La" apre le danze con un riff orientaleggiante. Steve Lee (voce) ricorda molto lo Stephen Tyler di "Nine Lives" (Aerosmith, 1997), ma lo fa in uno stile tipicamente Gotthard. Il chorus è di quelli acchiappanti che hanno fatto la fortuna della band. Leo Leoni (chitarra) stupisce con un assolo tanto semplice quanto originale.
"Unspoken Words" porta l'ascoltature in atmosfere più cupe e cattive che sfociano in un ritornello classico e sinceramente strasentito. Peccato.
Il primo singolo "Need To Believe" è la classica semi ballad made in Gotthard, che però ancora una volta stenta a rapire l'ascoltatore, complici un riff poco ispirato e un ritornello con poco mordente.
Si cambia atmosfera con "Unconditional Faith", che finirà nella colonna sonora del film del regista Uwe Boll sul pugile tedesco Max Schmeling. Stavolta il pezzo è decisamente azzeccato! Cori strappaorecchie e gran feeling con uno Steve Lee che dà il meglio di sé.
Finalmente il pezzo rock che tutti aspettavamo! "I Don't Mind" non sarà un capolavoro di originalità, ma è fottutamente pazzesco. Vi sfido a non scapocciare al ritmo della cassa martellante. Scontata? Già sentita? I don't mind!
La semiacustica "Break Away" è una ballad di buona fattura che però difficilmente riuscirà ad offuscare alcuni capolavori del passato come ad esempio "I've seen an angel cry" (da Lipservice).
"Don't Let Me Down" è una ballad decisamente evitabile, visto che di pezzi come questo i Gotthard ne hanno scritti a palate.
Si torna su ottimi livelli con la movimentata "Right From Wrong". Feeling cattivo e ritornello che si impianta in testa sin dal primo ascolto.
"I Know, You Know" parte lenta e rilassata per poi spiazzarti quando meno te lo aspetti, trasformandosi in un ottimo hard rock cadenzato caratterizzato da un chorus decisamente particolare. Bell'assolo, Leo!
Pesantezza quasi metallica, basso strisciante, doppia cassa e ottimo ritornello con "Rebel Soul", uno dei pezzi migliori dell'album!
Addirittura orchestrazioni (se sono campionature sono fatte molto bene) in apertura per "Tears To Cry", ballad carica di pathos, ma ancora una volta poco catturante.
La bonus track "Ain't Enough", in chiusura, è ironicamente uno dei pezzi migliori. Bella cazzuta!
In definitiva un album decisamente superiore a "Domino Effect", ma purtroppo molto lontano dai fasti di "Lipservice". Intendiamoci, ottimo hard rock di matrice europea e decisamente superiore alla media, purtroppo però si sa che dopo aver scritto un capolavoro i fans diventano molto più esigenti.
Se ne consiglia comunque l'acquisto senza pensarci due volte, non lasciatevi scoraggiare dalla orrida copertina!