mercoledì 25 novembre 2009


Cerco collaboratori che si occupino di recensioni metal estreme (death metal, black metal ecc.).
Come avrete capito dalle recensioni postate finora, non mi intendo molto del metallo veramente pesante. Perché? Semplicemente perché non mi coinvolge, non mi piace. Arrivo fino al thrash, agli Slayer, ai Sepultura, ma oltre (Mayhem, Dimmu Borgir,...) non me ne intendo.
Quindi cerco collaboratori che si occupino di questi generi più estremi, per amore di completezza e anche perché, pure volendo, non potrei coprire tutte le recensioni di tutte le uscite da solo.
Per partecipare, scrivete una recensione di metal estremo e inviatemela all'indirizzo vitoner@hotmail.it con oggetto "partecipazione al blog".
Valuterò e vi farò sapere.
Grazie a tutti!
lunedì 23 novembre 2009

Proseguiamo ad analizzare le origini dei W.E.T. analizzando la "E.". E' la volta degli Eclipse, svedesi come i Work Of Art e come loro sotto contratto con la Frontiers. Stavolta però il sound preso in esame è decisamente più duro e diretto: scordatevi Journey e Toto, stavolta le prime cose che vengono alla mente sono Bon Jovi, Europe, Whitesnake, insomma tutto l'hard rock più duro e diretto.
Erik Martensson (voce, chitarra, basso e tastiere! Poi anche nei W.E.T.), Magnus Enriksson (chitarra), Johan Berlin (tastiere) e Robert Back (batteria) esordiscono nel 2001 con l'autoprodotto e direttissimo "The Truth And A Little More", vengono notati dalla Frontiers che li mette sotto contratto e gli fa pubblicare "Second To None" nel 2004, che però si rivela di minore levatura pur essendo un album gradevole.
Nel 2008 arriva "Are You Ready To Rock". Cazzo se sono pronto! Con un album del genere, poi! Rispetto al lavoro precedente si preferisce schiacciare l'acceleratore piuttosto che puntare esclusivamente sulla melodia, e come risultato si hanno undici canzoni semplicemente da pazzi! Davvero, si potrebbe estrarre un singolo con ogniuna di esse! Martensson ha una voce spettacolare, capace di regalare sempre la sensazione giusta al momento giusto come solo i grandi cantanti sanno fare, Enriksson ci dà dentro come un pazzo, Back picchia sodo e Berlin vi avvolgerà con i suoi tappeti melodici.
"Breaking My Heart Again" è semplicemente da orgasmo. Riffone hard rock degno dei migliori anni ottanta, assolone e chiusura collegata con la martellante "Hometown Coming", secondo spettacolare episodio a base di grandi cori, ritornello strapa orecchie e di nuovo un riff bruciante. Solo spot carico di adrenalina in cui Enriksson ricorda molto Malmsteen, ma per fortuna risulta meno orpelloso.
"To Mend A Broken Heart" porta subito alla mente gli Europe, pur discostandosene con un riff decisamente granitico che fa esplodere la sua carica in un ritornello fantastico studiato per i concerti.
"Wylde One" è un'esplosione di adrenalina a duecento all'ora di quelle che ti fanno scapocciare dal primo all'ultimo secondo. Mi è venuta anche voglia di birra! Mentre la vado a stappare parte "Under The Gun" (e basta con questo titolo! Oramai è inflazionato!), incipit classicheggiante simil vinile e deflagrazione devastante che prorompe nel riff più malmsteeniano dell'album. Una cavalcata epica condita da un ritornello epico e farcita di assoli molto vecchio stile.
Groove a manetta e chitarrone heavy per "Unbreakable", molto più melodica rispetto alle canzoni precedenti. Un gradito rallentamento che permette di riorganizzare le idee, anche se come risultato complessivo ci siamo a metà.
Si riparte in picchiata al ritmo forsennato di "Hard Time Loving You", che non dà nemmeno il tempo di respirare tanto è serrata e compatta. Da notare l'assolo 'impazzito' che richiama alla mente la N.W.O.B.H.M. con le sue twin guitars che si inseguono e si intrecciano.
Colpi d'arma da fuoco ci introducono a "Young Guns", movimentata e dalle atmosfere a metà fra Europe e il Malmsteen di "Eclipse", ma con un riffing decisamente più moderno. Il ritornello ricorda anche band come Danger Danger, giusto per chiarire di che tipo di sound stiamo parlando. Confusi, eh? Come sono perfido.
"Million Miles Away" torna sul classico hard rock melodico, rivelandosi trascinante ed ispiratissima, uno degli episodi migliori dell'album, così come la bellissima "2 Souls" col suo riff semplicemente magnifico e il suo ritornello realizzato ad arte.
Si chiude il sipario con "Call Of The Wild", pezzo che vanta il riff d'apertura più geniale di tutto il disco e riesce ad esaltare l'ascoltatore fino all'ultimo millesimo di secondo.
Ora sì che si inizia a capire da dove è uscito "W.E.T."! Alla prossima per la recensione dell'ultima lettera dell'acronimo con i Talisman!

Dopo la recensione del capolavoro dei W.E.T., mi pare doveroso analizzare i gruppi che hanno fornito le lettere dell'acronimo. Iniziamo ovviamente dalla "W." con gli svedesi Work Of Art, nati nel lontano 1992 per volontà del chitarrista chitarrista Robert Säll (che ha partecipato al progetto W.E.T.) e del batterista Herman Furin. Con in mente un melodic rock ispirato a Journey e Toto, i due cercano disperatamente un cantante adatto alla loro visione. Il produttore Lars Säfsund, dopo aver sentito alcune delle canzoni di “Artwork” decide di prestare la sua voce stupenda al progetto. Il pregio di questo disco d'esordio (ci hanno messo sedici anni... complimenti per la perseveranza!) non è certo l'originalità, a dire il vero potrebbe essere benissimo un disco di Lukather e soci, ma la maestria compositiva e il coinvolgimento che donano le dodici canzoni durante cinquantadue minuti vorresti non finissero mai.
"Why Do I?" apre il disco nel migliore dei modi: melodica, potente, magica, immediata e indimenticabile. Meglio non era possibile. Davvero. Mi ha steso. Wow.
Segue una "Maria" romantica e sognante, debitrice per l'eternità a una certa "Georgy Porgy", ma ancora una volta capolavoro.
"Camelia" prosegue nella stessa direzione col suo riff funkeggiante e il suo tappeto di tastiera che fa la differenza, per poi esplodere nel ritornello smaccatamente... Toto. Se ancora non l'avete capito, questi ragazzi ne sono la reincarnazione.
Dopo due mid tempo si arriva alla cavalcata di "Her Only Lie", travolgente con la sua energia. Ritornello memorabile che si stampa in mente subito subito.
Madonna che cos'è "Too Late"! Dopo l'opener il miglior episodio del disco! Riff decisamente più originale rispetto alle tracce precedenti e feeling a go go. Spettacolare.
Parte soffusa e d'atmosfera la canzone più smaccatamente 'ispirata' ai Toto, "Whenever U Sleep". Il pianoforte, seppur relegato in secondo piano rispetto alle chitarre, la fa da padrone e i Work Of Art ci regalano un altro pezzone.
Era l'ora della ballatona, piazzata con maestria e semplicemente irresistibile. "Once In A Lifetime" è come una carezza fatta con un petalo di rosa (non avrei mai pensato di scrivere una roba del genere prima di aver sentito 'sta canzone!), romanticissima e, ancora una volta, perfetta.
Segue la rocambolesca "Peace Of Mind" che sarebbe potuta tranquillamente essere la colonna sonora di un Rocky a caso! A tratti progressive (poco) e a tratti da stadio (molto), coinvolge alla grande.
Largo al rock più massiccio con "Lost Without Your Love", dove per la prima volta mi sento di dire che la tastiera penalizza il risultato complessivo della canzone, andando a coprire eccessivamente un riff veramente bello, soprattutto durante il riff. Rimane lo stesso un pezzo ottimo, pur con questa piccola pecca.
Cori a palla in apertura alla funky song "Like No Other", spumeggiante episodio che ci rivela una volta per tutte la maestria di questi tre ragazzi svedesi.
"Cover Me" è una rock song a tutti gli effetti, mettendo da parte il lato più A.O.R. che è venuto fuori finora e sprigionando tutta l'energia del trio.
Dopo questa botta di adrenalina si chiude con "One Hour", vagamente orientaleggiante e dalla struttura che spiazza, visto che apre con un riffone cattivo, si placa con una strofa dolce e, a modo suo, sperimentale ed esplode finalmente in un riff esaltato dalla voce di Säfsund.
Il miglior pregio dei Work Of Art è la maestria compositiva degna degli inarrivabili Toto, il peggior difetto è che sembrano non avere una propria identità definita, rifacendosi fin troppo alla band di Lukather e rischiando di finire etichettati come cloni. Cloni ben riusciti, ma sempre cloni.
Critiche a parte, i Work Of Art hanno classe, stile, insomma hanno le palle cubiche.
Se fossero riusciti ad esordire prima del 2008 probabilmente oggi sarebbero un nome di rilievo della scena A.O.R. europea e, perché no, mondiale.
domenica 22 novembre 2009

Ennesimo supergruppo nell'esercito della Frontiers, i W.E.T. sono composti da Robert Sall, chitarrista dei Work Of Art (ovvero la "W." del nome), Erik Martensson, bassista degli Eclipse (la "E.") e niente di meno che Jeff Scott Soto, che ha prestato la voce a innumerevoli artisti (Journey, Panther, Trans Syberian Orchestra, Takara, Human Clay, Axel Rudi Pell, Humanimal, Yngwie Malmsteen, Eyes,...) e ultimamente milita nei Talisman (la "T.").
Questo primo lavoro dei W.E.T. si rivela la sorpresa dell'anno, uno di quei dischi che non ti aspetti e che ti stendono sin dal primo ascolto. Certo, troverete sempre in giro i soliti criticoni che volevano di più, che se la prendono con l'eccessiva modernità del sound, che boicottano i W.E.T. per il solo status di super gruppo.
Lasciateli perdere, "W.E.T." è un disco di hard rock melodico classico, ma ovviamente aggiornato agli standard odierni per quanto riguarda il sound e la produzione. L'esecuzione tecnica è superba, ma la tecnica è asservita totalmente al songwriting senza mai scadere in sbrodolamenti solisti. I W.E.T. sono una band, e il fatto di essere composti da tre forti individualità non pregiudica il risultato finale, che ne esce fuori compatto ed omogeneo.
"E' il disco che avrei realizzato coi Journey se fossi rimasto con loro", questa dichiarazione di Soto riassume benissimo quello che ho cercato finora di spiegare con mille parole.
E' incredibile come un progetto nato in sordina e quasi per scherzo si sia rivelato la pietra miliare dell'A.O.R. di annata 2009.
Lasciatevi rapire dalla classe della copertina e schiacciate play, basteranno i primi tre pezzi per farvi capire il valore di questo album, altrimenti, se siete dei pignoli come il sottoscritto, siete avvertiti: non fermatevi al primo ascolto superficiale, la bellezza del disco vi apparirà in tutta la sua maestosità dal terzo in poi. Non che il disco sia difficile da comprendere, ma le sfaccettature del progetto sono molte. Analizziamole assieme.
"Invincible" è impossibile da non cantare a squarciagola, con la sua stesura ritmica non indifferente e la sua componente sinfonica che contribuisce a trascinare l'ascoltatore in un vortice la cui ciliegina sulla torta è l'assolo tanto semplice quanto raffinato, dalle tinte quasi classicheggianti. A proposito, ma da quanto tempo Soto non cantava così bene? Bentornato Jeff!
Segue il singolone "One Love" che, non vi preoccupate, non è una cover né degli U2 né dei Blue, ma una ballad semiacustica semplicemente travolgente che sa moltissimo di Journey. Una delle canzoni più belle mai cantate da Soto. Il ritornello è semplice semplice, ma dalla presa immediata.
"Brothers In Arms" ha un riff originale e un chorus fantastico che candidano la canzone alla palma di migliore episodio dell'album. Movimentata e d'atmosfera, insomma semplicemente perfetta.
Finita la tripletta bruciante di partenza, segue "Comes Down Like Rain", power ballad che permette di riprendere fiato con il suo ampio respiro e le sue atmosfere ovattate che solo nel ritornello cedono il passo a un'esplosione di sentimento da veri maestri.
"Running From The Heartache" è l'ideale fusione di Journey e Talisman. Ancora una volta atmosfera a palla di quelle che basta chiudere gli occhi per immaginarsi sul palco a cantare davanti a migliaia di persone. Non fatelo in macchina, potrebbe essere pericoloso.
Spettacolare anche "I'll Be There", nella quale si aumentano i ritmi ottenendo un pezzo che avrebbe fatto invidia ai migliori Danger Danger!
Per non parlare di "Damage Is Done"! Chitarre heavy e delicatissimo pianoforte vi introdurranno a un bridge cadenzato e a un chorus molto Europe. Pazzesco, siamo alla settima canzone e non c'è nemmeno l'ombra di una battuta di arresto! Non c'è una nota fuori posto, non c'è una canzone che non coinvolge o che non trascina!
Infatti si procede con la scoppiettante "Put Your Money Where Your Mouth Is", che ci mostra un Soto finalmente un po' più "incazzato" che ci accompagnerà nella traccia più classicamente hard rock di tutto il disco.
"One Day At A Time" è anch'essa una power ballad da far drizzare i peli, stavolta dal sapore molto Gotthard, per capirci. Tenete a portata di mano la morosa/il moroso o, se siete al concerto, glli accendini. Sconsigliatissima a chi si è appena lasciato con il fidanzato/la fidanzata.
Si torna a macinare hard rock con la bellissima "Just Go", sinfonica ed epica col suo riff a metà strada fra il primo Malmsteen e, ancora una volta, i Journey, ma con tanta energia in più.
"My Everything" vi scioglierà con le sue linee melodiche incantevoli e con l'incredibile prestazione di Soto. Se fosse uscita una trentina di anni fa probabilmente oggi sarebbe un classico che ha scalato le classifiche di tutto il mondo.
Chiusura affidata alla power ballad "If I Fall", di chiara matrice Journey sin dalle prime note. Diciamo che la dichiarazione di Soto citata prima era azzeccatissima.
Nemmeno una canzone brutta. Finalmente un 'appetite' (per chi non capisse, andatevi a leggere le prime righe della recensione di "Chinese Democracy" dei Guns N' Roses, pubblicata in maggio 2009).
Miglior disco del 2009? Forse. Miglior disco hard rock/A.O.R. del 2009? Sicuramente.
Fiondatevi a comprarlo, prima che finisca.
domenica 15 novembre 2009

E puntualmente eccoci qui con la recensione dell'ultimo live dei Mr. Big, l'esplosivo “Back To Budokan”, album celebrativo della reunion tanto attesa (edito dalla partenopea Frontiers, ormai attivissima nel campo del rock classico).
C'è poco da aggiungere rispetto a quanto detto nella recensione di “Lean Into It” per quanto riguarda notizie e curiosità. Il bassista Billy Sheehan in un'intervista a Metal Maniac ha raccontato di come la band abbia voluto aspettare il momento giusto per tornare insieme, facendolo nell'unico momento in cui non erano pressati dalle major. Gli antichi screzi fra i membri del gruppo avrebbero potuto riaccendere i vecchi fuochi che portarono allo scioglimento della formazione originale (con Paul Gilbert alla sei corde) se questa reunion non fosse nata nel modo più naturale possibile. Il disco che avete (o avrete) fra le mani è il frutto di jam session informali a cui hanno partecipato anche altri musicisti, fra cui Richie Kotzen, che aveva rimpiazzato Gilbert, e cene faccia a faccia per parlare del futuro del “Sig. Grande”. Sarà che ormai l'acqua è passata sotto i ponti, sarà che i quattro sono maturati nel frattempo, sarà quello che vi pare, il risultato è un live spettacolare per esecuzione e scelta della scaletta. Registrato in quel Budokan di Tokyo che aveva visto la loro ultima esibizione, questo ritorno non risulta totalmente perfetto, ma solo perché i Mr. Big hanno registrato nulla più che una esibizione spontanea e genuina, senza sovraincisioni: c'è la musica, c'è il pubblico ed è quanto basta. Non prendete le piccole imperfezioni (in realtà pochissime) come un pretesto per 'declassare' il disco, ma come l'umiltà di presentarsi al grande pubblico per quel che si è.
I grandi classici ci sono tutti, sparsi per i due lunghissimi CD, e c'è addirittura una sfavillante luce di speranza per il futuro, che ogni fan apprezzerà certamente: due nuovi pezzi proposti sia in sede live che in versione studio. “Hold Your Head Up” è moderna e allo stesso tempo ricorda il passato col suo riff molto Van Halen e il suo ritornello da stadio decisamente originale. Se fate parte degli irriducibili bacchettoni che non apprezzano la freschezza compositiva, non vi preoccupate, per voi c'è “Next Time Around”, classica a dir poco e che lascia promettere scintille nel caso di un nuovo album in studio (Sheehan ha detto che dopo la conclusione del tour vedranno come procedere).
Per quanto riguarda il resto dei pezzi dal vivo, non c'è che l'imbarazzo della scelta: date un'occhiata a fine recensione per la tracklist completa.
Sono presenti anche i classici 'solo spots' in cui Billy Sheehan, Paul Gilbert e Pat Torpey si esibiscono in tutta la loro mostruosa bravura. Segnalo soprattutto l'assolo di batteria di Torpey: è incredibile come riesca a portare un ritmo assurdo con le gambe, un altro ancor più assurdo con le braccia e a cantarci pure sopra! Semplicemente pazzesco. Non che gli assoli di basso e chitarra siano di minor levatura, ma le capacità di Sheehan e Gilbert sono certamente più di... 'dominio pubblico', concedetemi l'espressione.
Da segnalare anche una cover di “Baba O'Riley” (dei Who) decisamente sopra le righe.
Un live spettacolare che ci restituisce dei Mr. Big in forma smagliante e lascia intendere promettenti sviluppi futuri: che volete di più?

Tracklist:
CD 1
01 - Daddy, Brother, Lover, Little Boy (The Electric Drill Song)
02 - Take Cover
03 - Green-Tinted Sixties Mind
04 - Alive And Kickin'
05 - Next Time Around
06 - Hold Your Head Up
07 - Just Take My Heart
08 – Temperamental
09 - It's For You – Mars
10 – Pat Torpey Drum Solo
11 – Price You Gotta Pay
12 – Stay Together
13 – Wild World
14 – Goin' Where The Wind Blows
15 – Take A Walk

CD 2
01 – Paul Gilbert Guitar Solo
02 – Paul Gilbert & Billy Sheean Duo
03 – Double Human Capo
04 – The Whole World's Gonna Know
05 – Promise Her The Moon
06 – Rock & Roll Over
07 – Billy Sheehan Bass Solo
08 – Addicted To That Rush
(Encore 1)
09 – Introducing The Band
10 – To Be With You
11 – Colorado Bulldog
(Encore 2)
12 – Smoke On The Water
13 – I Love You Japan
14 – Baba O'Riley
15 – Shy Boy
Bonus Tracks:
16 – Next Time Around (Studio version)
17 – Hold Your Head Up (Studio version)
18 – To Be With You (Acoustic version)
lunedì 9 novembre 2009

Decimo album in studio per i Queensrÿche, seminale band di Seattle autrice del capolavoro "Operation: Mindcrime", recensito qualche tempo fa su questo blog.
Anche stavolta abbiamo in mano un concept album (ancora?! Baaaasta!) incentrato sull'esperienza dei soldati americani: il cantante Geoff Tate negli ultimi anni ha intervistato veterani che furono coinvolti in conflitti che vanno dalla seconda guerra mondiale al recente Iraq, per poi tradurre in musica queste, spesso toccanti, testimonianze. Così Tate spiega l'origine dell'idea: "La prima cosa in assoluto è stata una conversazione con mio padre. Mio padre è stato nell'esercito e ha tutta questa esperienza accumulata nei luoghi in cui ha prestato servizio: Korea, Vietnam... Abbiamo parlato della sua vita nell'esercito. Susan, mia moglie, una volta mi ha chiesto 'Perché non scrivi una canzone su tuo padre?'. Così, quando abbiamo iniziato a parlare della vita nell'esercito ho iniziato a pensare ai soldati americani, perché non sappiamo molto di loro, del modo in cui si sentono riguardo un sacco di cose...".
Insomma, ogni canzone rappresenta una diversa tstimonianza di un diverso soldato intervistato.
Si parte con un sergente che ci strilla nelle orecchie un "IN PIEDI!" nella canzone d'apertura "Silver", concentrata e a fuoco, trattante il tema dell'arruolamento e dell'addestramento dei soldati.
Una sirena e il rumore degli elicotteri ci introducono a "Unafraid", a tratti indutrial a tratti molto classica, ricca di spezzoni di intervista e volta a spiegare lo stato mentale in cui volge il soldato in guerra per non impazzire.
Lo sguardo concentrato e al contempo vuoto dei soldati che avanzano nel territorio nemico è magistralmente descritto in "Hundred Mile Stare", canzone musicalmente egregia come non se ne sentivano da tempo composte dai Queensrÿche.
Con "At 30,000 FT" ci troviamo su un aereo, in procinto di buttarci col paracadute: nessuna emozione, ogni cosa è fuori dal nostro controllo e sentiamo solo il nostro respiro nella maschera che indossiamo. La sensazione di tensione è trasmessa magistralmente da un tappeto musicale perfetto che sa quando essere d'atmosfera e soffuso e quando essere duro e diretto. Toccante il verso finale "Sono il creatore di questa nuova terra promessa e mi chiedo 'cosa diavolo ho fatto?'. Sono in aria sopra di essa. Ci sto sopra."
"A Dead Man's Words" sono le angoscianti parole di un soldato ferito, dato per morto e lasciato indietro nel deserto. La seconda metà della canzone descrive in modo semplicemente perfetto il recupero di questa persona, facendo capire chiaramente la disperazione e al contempo la voglia di sopravvivere del soldato con un heavy metal pregiato e di alto livello, impreziosito da tinte orientaleggianti che dipingono nella mente l'immagine di un deserto infuocato e impietoso.
"The Killer" è uno dei pezzi meglio riusciti e al contempo uno dei più disturbanti all'ascolto: i temi trattati sono la morte dell'ultimo figlio per la madre disperata e l'istinto di sopravvivenza che stride con l'orrore del soldato che vuole sopravvivere al cecchino che gli spara addosso, con le urla che riecheggiano ("Sparagli!") mentre rimane steso a terra impietrito e immobile.
Altro capolavoro con "Middle Of Hell", che descrive lo spaesamento di un soldato che si ritrova in guerra e nonostante comprenda che molti moriranno, si convince che lui ce la farà, ripetendoselo all'infinito. Assolo ispiratissimo per un mid tempo carezzato dalla carismatica voce di Tate. Eddie Jackson e Scott Rockenfield, rispettivamente basso e batteria, stendono un tappeto ritmico che non avrebbe sfigurato su un grande album come "Promised Land" (1994): la canzone infatti ricorda molto proprio quel capolavoro di title track.
La bellissima "If I Were King" (gran lavoro di chitarra per Michael Wilton!) esprime il senso di colpa per essere sopravvissuto di un soldato che vorrebbe riportare in vita i commilitoni che hanno dato la propria vita anche per salvare la sua. Ancora centro.
La pesantissima "Man Down!" dipinge prima la speranza di un soldato colpito che aspetta i rinforzi. Quando non arrivano però si rende conto di essere solo un numero e inizia a dubitare della cavalleria, che arriva in extremis, salvandolo, ma lasciandolo mentalmente turbato per il resto dei suoi giorni.
"Remember Me" è la struggente lettera d'amore di un soldato che prega la sua donna di aspettarlo, promettendole che non la lascerà mai più e che saranno felici per sempre, il tutto con la solita maestria musicale che caratterizza il sound dei Queensrÿche.
"Home Again" è anch'essa una lettera, ma stavolta 'doppia', dal padre alla figlia e dalla figlia al padre. Ballad spettacolare, originale e struggente in cui Geoff Tate duetta con la sua figlia di dieci anni, Emily.
Questo album praticamente perfetto si chiude con "The Voice", che parla di un soldato che si rende conto di essere ormai a casa, fuori pericolo, ma continua a sentire "la voce" nella sua testa, ad indicare il suo equilibrio mentale distrutto per sempre dall'esperienza traumatica della guerra.
Un album che si eleva dalla semplice definizione di "musica" per toccare le vette della vera e propria "arte", grazie anche al forte messaggio che porta coi suoi testi ispirati e le sue trame musicali che diventano colonne sonore di esperienze di vita vissuta. Probabilmente non troverete il singolone stile "Operation: Mindcrime", ma, dopo uno scivolone quale "Operation: Mindcrime II", avete finalmente fra le mani la vera essenza dei Queensrÿche, gruppo capace di stravolgere i canoni dell'heavy metal, trascendendo la condizione di meri esecutori materiali di un genere che ormai ha detto praticamente tutto quello che valeva la pena dire e non solo ed elevandosi ad artisti a tutto tondo che riescono a trasmettere un messaggio duro e scomodo soprattutto alle nuove generazioni che (prevalentemente nelle zone povere dell'America) vedono l'esercito come una fonte di sostentamento obbligata.
Insomma, citando i Queensrÿche stessi, i ricchi rimangono ricchi e i poveri rimangono poveri.
Band talentuosa? Ormai lo hanno dimostrato. Band scomoda? Decisamente.
Viva i Queensrÿche.
Abbasso il potente.

A volte ritornano. A volte fanno di nuovo centro. A volte.
Settimo album in studio per i Danger Danger e ritorno alla voce per il frontman storico Ted Poley che sostituisce il (più?) bravo Paul Laine.
Rilasciato esattamente venti anni dopo la release del loro debutto, "Danger Danger", "Revolve" vorrebbe segnare un ritorno alle origini del sound sessuale e trascinante dei bei tempi andati. Purtroppo Ted Poley non è più vocalmente fresco come una volta e, soprattutto, manca l'elemento fondamentale che rendeva il gruppo capace di stracciare la concorrenza, quell'Andy Timmons che magistralmente interpretava e impreziosiva le composizioni del bassissta Bruno Ravel. Guarda caso i tre album migliori della carriera dei Danger Danger sono proprio quelli dove compare Timmons ("Danger Danger" del 1989, "Screw It!" del 1991 e "Cockroach", rilasciato postumo nel 2001 per problemi burocratici). Steve West picchia ancora come ha sempre fatto e Rob Marcello (primo lavoro nei Danger Danger per lui) ci sa fare con la sei corde, pur non essendo al livello del genio che lo ha preceduto.
Intendiamoci bene, i Danger Danger ci sono ancora e sanno ancora comporre ottime canzoni, fresche e orecchiabili, ma lo smalto di un tempo è ormai andato, lo si capisce sin dalla prima traccia, "That's What I'm Talking About", che potrebbe essere tranquillamente un outtake dallo scialbo disco solista "Smile" (2006) di Ted Poley.
Si prosegue con la decisamente più ispirata "Ghost Of Love", forte di un riff credibile e di un ritornello stavolta davvero ispirato.
Segue la strana "Killin' Love", triste ed autunnale col suo pianoforte malinconico, che, diciamocelo, dopo otto anni di attesa, non è proprio quello che si voleva dalla band. Sembra quasi che volessero imitare il feeling di quel capolavoro che era "Sick Little Twisted Mind" dell'album precedente, riuscendoci solo a metà. Danger Danger e tristezza non vanno bene insieme, vogliamo il casino!
"Hearts On The Highway" ci accontenta riportando alla mente proprio la band che ci è rimasta impressa a fuoco! Probabilmente se fosse uscita venti anni fa, ora sarebbe un classico, col suo chorus trascinante e il suo riff ruffianissimo (scusate il gioco di parole)!
"Fugitive" è la prima ballad, semplice e quasi scontata, non convince e non regge il confronto con l'ingombrante passato.
Si accelera di nuovo con "Keep On Keepin' On", solare ma poco ispirata sia a livello di riff principale che di chorus. Smaccatamente easy listening con destinazione TV.
Una semi ballad poco riuscita, ecco cos'è "Rocket To Your Heart". Sembra composta da una qualsiasi delle band di ragazzini emo che ci appestano le orecchie in questo buio periodo musicale. Oddio, vabbè, non esageriamo. Non è emo, ma comunque fa cagare.
"F.U.$", ovvero "Fuck You Money", racconta l'odio dei Danger Danger verso il denaro che tanto ne ha condizionato la carriera. Il testo decisamente condivisibile salva solo in parte un brano affossato dalla banalità. Peccato.
Si torna finalmente alla carica con "Beautiful Regret": partenza scoppiettante e svolgimento in pieno stile primi Danger Danger, peccato che sappia di già sentito a mezzo kilometro.
Finalmente con "Never Give Up" ci lasciamo trascinare dalla prima ballad degna di questo nome. Ancora niente di trascendentale, siamo lontani anni luce da perle come "I Still Think About You" o "Afraid Of Love".
Con "Dirty Mind", uno degli episodi migliori dell'album, si chiude un lavoro controverso in cui i Danger Danger paiono restare onestamente a galla senza sforzarsi troppo. Spero vivamente che questa battuta a vuoto serva da ricaldamento in vista di un nuovo album che ne segni definitivamente il ritorno col botto.
Nel frattempo se volete divertirvi, ravanate nel vecchio catalogo.

Si intitolerà "No Guts No Glory" ed uscirà il 23 Febbraio 2010 per la Roadrunner.
Ecco le parole degli aussie rocker a riguardo:

"Gli australiani Airbourne sono orgogliosi di annunciare il titolo del secondo album per Roadrunner Records: No Guts, No Glory uscirà ad inizio 2010. No Guts, No Glory è stato registrato a Chicago col noto produttore Johnny K (Disturbed, 3 Doors Down, Staind).

Il frontman Joel O’Keefe dichiara “Lavorare con Johnny è stato grandioso: è uno di noi. Ci siamo limitati a sistemare la strumentazione, collegare i microfoni e suonare! Bei momenti!”. Il batterista Ryan, fratello di Joel, conferma: “Abbiamo messo i microfoni in tutto l’edificio, lasciato le porte e le finestre aperte e schiacciato il tasto ‘REC’!”

Ed ecco a voi le prime date italiane disponibili:
28/2/2010 Estragon, Bologna
1/3/2010 Alpheus, Roma
3/3/2010 Alcatraz, Milano

Per chi vivesse su Marte, "No Guts No Glory" sarà il secondo album in studio per gli Airbourne, a seguire il pazzesco "Running Wild" del 2008, primo album recensito in questo blog.

Buona attesa!
domenica 8 novembre 2009

A tre anni di distanza dal buon "Christ Illusion", gli Slayer ci sbattono in faccia il feroce "World Painted Blood". Quaranta minuti scarsi in cui il muro sonoro dei macellai californiani vi travolgerà senza compromessi, giusto per farvi capire che stavolta non si cazzeggia.
Scritto e registrato in poco più di quattro mesi, l'album è composto da undici canzoni di cui sei composte da Kerry King (chitarra) e cinque da Jeff Hanneman (chitarra). Ricordiamo che dal precedente disco dietro le pelli troviamo Dave Lombardo, tornato dopo diversi anni di pausa dalla band, in cui era stato sostituito dal bravissimo Paul Bostaph. Al microfono come sempre Tom Araya e dietro il mixer l'ormai onnipresente produttore del thrash, Rick Rubin. Il sound non è pulitissimo, anzi è pesante e polveroso come dovrebbe essere. Stiamo parlando degli Slayer, non dei Teletubbies.
Originale l'idea dei continenti composti da ossa per la copertina, suddivisi in quattro copertine diverse, che unite formano la mappa del mondo. Per la serie "evviva i metallari nerd che si comprano quattro volte lo stesso disco per avere la mappa completa".
Vista anche la scarsa facilità di reperire informazioni e curiosità sull'album, passiamo alla recensione.
Si parte subito in quinta con la title track "World Painted Blood", secondo singolo estratto dall'album, col suo riff furioso di chiara matrice Hanneman, esaltato da dei break molto più melodici rispetto al recente passato. Ciliegina sulla torta la voce di Tom Araya, che a mio parere col passare degli anni si fonde sempre meglio col sound della band. Grazie anche al suo assolo allucinato ricorda molto alcuni pezzi classici del periodo anni '80.
Velocità è la parola chiave per definire "Unit 731", e se avete presente il riffing e il drumming furiosi dei bei tempi passati, potete farvi subito un'idea: neanche il tempo di riprendersi dagli assoli incrociati di Kerry e Jeff che finiscono i due minuti e mezzo. E ti senti come se ti fosse passato addosso un tir di cui ovviamente non hai fatto in tempo a prendere la targa.
Non si rallenta nemmeno con "Snuff", un macigno che vi rotola sul collo a tutta velocità, tanto per cambiare. Queste sono le canzoni che ti fanno capire che ormai il metal è libero dalle influenze esterne che lo snaturarono negli anni '90, rendendolo spesso quasi irriconoscibile: moltissimi gruppi stanno tornando alle loro radici e al sound che ha reso grande questo genere.
Segue una spettacolare "Beauty Through Order" che, dopo una partenza molto "Season In The Abyss" (1990)... prosegue proprio come se fosse stata composta per quel grande album! Il ritmo quasi marziale cede il passo solo a metà pezzo a un assolo con conseguente cambio di tempo e di riff semplicemente da oscar. Headbanging assicurato per un probabile futuro classico che sicuramente farà i morti (letteralmente) sotto il palco.
Partenza bruciante anche con "Hate Worldwide", terzo singolo estratto, la colonna sonora metal perfetta per un frullatore, vista la cattiveria che la permea e la velocità di esecuzione.
Il metallo pesante estremo allo stato dell'arte in questo album prende il nome di "Public Display Of Dismemberment", composta da un Kerry King in stato di grazia che concentra praticamente tutte le idee che lo hanno reso famoso nella sua carriera assieme al collega Jeff in due minuti e mezzo bestiali.
"Human Strain" è decisamente permeata da un'atmosfera più elaborata, ma non per questo meno "angosicante", grazie alla sua ritmica martellante e al fantastico cantato di Araya, interprete fondamentale per la riuscita del pezzo.
Sul filone della sperimentale "Jihad" dal platter precedente, Kerry King ci propone "Americon", diversa e più accessibile, verrebbe quasi da dire "commerciale", ma stiamo pur sempre parlando degli Slayer.
Si torna al sound classico con "Psychopathy Red", primo singolo estratto, che definirei con due aggettivi contati: fottutamente geniale. Punto. E' già un classico. Un classico che ti strappa le ossa dal corpo e te le sbriciola in due minuti.
Tornano le atmosfere malate di "Human Strain" con "Playing With Dolls", fatta apposta per sedare (relativamente al sound degli Slayer, ovviamente!) l'ascoltatore in vista della conlusiva "Not Of This God", tornado sonoro concentrato di furia compositiva e odio.
Si vocifera che questo potrebbe essere l'ultimo album degli Slayer. Spero vivamente di no, perchè ci hanno dimostrato ancora una volta chi è che comanda con un album non perfetto ma diretto a un preciso pubblico che vuole esattamente quello che vi ho descritto. Fanculo le sperimentazioni e le contaminazioni, gli Slayer sono unici. Puoi odiarli, puoi amarli, puoi non capirli, ma sono lì e, fidati, anche se non li caghi, prima o poi ti troveranno loro. E' stato così anche per me e lo sarà anche per i metalheads che ancora devono nascere per scoprire capolavori come "Reign In Blood" (1986).



Chi acquisterà l'edizione limitata di "World Painted Blood", godrà anche di un DVD bonus intitolato "Playing With Dolls": trattasi di un cortometraggio molto sanguinolento (realizzato in stile filmati di Max Payne) che ha per colonna sonora le canzoni del disco.
Eccovelo per intero. RIPETO: NON PER STOMACI DEBOLI!!!