giovedì 17 settembre 2009

E' ora della recensione storica. E' non uso la parola storia a sproposito, perché qui siamo di fronte a un album che ha profondamente influenzato il genere, e probabilmente lo influenzerà per i secoli a venire.
Gli Iron Maiden nascono nel 1979 a Londra per volontà dell'allucinante bassista Steve Harris. In quegli anni il rock è in declino, mentre il punk imperversa in una nazione operaia e che risente ancora del dopoguerra. Non c'è nessun segnale di inversione di tendenza. Insomma, per capirci bene: il rock era dato per morto.
Nessuno avrebbe mai immaginato che di lì a poco si sarebbe assistito alla N.W.O.B.H.M. (lungherrimo acronimo che sta per "New wave of british heavy metal", cioé "nuova ondata di heavy metal britannico"), di cui gli Iron furono l'indubbio gruppo di punta.
Nel 1980 pubblicano il loro debutto "Iron Maiden" e nel 1981 "Killers", con alla voce il cantante Paul Di'Anno. In questi due album è racchiusa l'anima dei primi Maiden, ovvero cinque ragazzi semplici, rozzi e maledettamente bravi. Grazie al loro talento e all'appassionato e innovativo management di Rod Smallwood (che ebbe la brillante idea di portare sul palco Eddie, o meglio Edward The head, la ormai storica mascotte della band, per distogliere i riflettori dai componenti veri e propri), i Maiden nel giro di soli tre anni conquistano pubblico e stampa. Sono lanciatissimi quando Di'Anno lascia la band perché non ce la faceva più (assumeva droghe e diciamo che lo stile di vita della band, nei primi anni, era decisamente spartano). Urge un nuovo cantante e i nostri adocchiano quello dei Samson, un certo Bruce Bruce, un folletto dalla voce assolutamente incredibile.
Riescono a convincerlo ad entrare nella band, si mettono al lavoro per il terzo album e BAM! Nel 1982 esce "The Number Of The Beast". La line-up è costituita quindi da: Bruce Dickinson (che è stato preso a patto che usasse il suo vero cognome, invece che Bruce Bruce, per fortuna), Steve Harris, Dave Murray (chitarra), Adrian Smith (chitarra) e Clive Burr (batteria). In più dietro alla consolle c'è niente di meno che Martin Birch, che aveva prodotto band come Deep Purple e Black Sabbath.
In soli otto pezzi (nove, se contiamo anche il b-side "Total Eclipse", incluso nel 1998 nella edizione rimasterizzata) i nostri ridefiniscono un genere, oltre che la loro stessa essenza.
Infatti le sonorità sono diverse dai lavori precedenti, anche se accomunate dallo spirito Maiden. Le canzoni sono molto più cariche ed epiche, soprattutto grazie alla incredibile voce di Bruce.
"Invaders" apre l'album sconvolgendoti col suo riff e la sua velocità. Non ti sei ancora ripreso e vieni investito dal primo classico: "Children Of The Damned", epica e trascinante in sede live.
"The Prisoner" si ispira all'omonima serie TV degli anni '70 ed è l'ennesimo centro.
Si prosegue con il seguito di quella "Charlotte The Harlot" (letteralmente "Carlotta la mignotta") apparsa nel primo album: "22 Acacia Avenue", nel cui bridge Dickinson sperimenta un po' di screaming-growl ante litteram, mentre racconta di prostitute e amori impossibili.
Segue il classico dei classici dell'heavy metal: "The Number Of The Beast". Una linea di basso semplicemente geniale accompagnata da due chitarre che ti trascinano l'anima. Dickinson dà il meglio di sé. Se non vi piace questa canzone, cambiate genere musicale.
"Run To The Hills" è il singolone trascinante, ma è anche una canzone fantastica, immediata e storica che ancora oggi miete vittime in sede live. Nonostante il video ironico, parla dello sterminio degli indiani d'America a opera dei conquistadores.
"Gangland" è decisamente la meno ispirata del disco, anche se probabilmente altre band venderebbero l'anima per comporre qualcosa del genere.
Segue la sopra citata "Total Eclipse", che in origine era un b-side (cioé le canzoni che si mettevano sul lato b dei singoli in vinile, che di solito erano più che altro dei riempitivi). Di certo non è una canzone memorabile, ma non mi sento neanche di definirla "riempitivo". Diciamo che stona un po' dal resto dell'album, ecco tutto.
Si chiude in bellezza con "Hallowed Be Thy Name", sette minuti e dieci di orgasmo musicale. La mia preferita in assoluto di tutta la loro discografia, che parla in modo molto profondo della pena di morte.
Il disco venne accolto benissimo in tutto il mondo e in Inghilterra schizzò al primo posto senza nemmeno l'ombra di un passaggio in radio o in televisione.
In America l'associazione dei "coglioni benpensanti", come mi piace chiamarla, ingaggiò un'imponente campagna mediatica contro i Maiden, giudicando l'album dalla copertina (in senso letterale) e accusandoli di satanismo. Gli sarebbe bastato leggere il testo di "The Number Of The Beast" per capire che stavano sparando stronzate, ma si sa come sono gli Americani. Ovviamente come risultato ottennero che l'album ebbe una pubblicità a tappeto che mai la band si sarebbe potuta permettere, con conseguente impennamento delle vendite e scalata delle classifiche.
Nonostante i (tanti) successi negli anni a venire e nonostante il formidabile batterista Nicko McBrain sarebbe arrivato solo con il successivo "Piece Of Mind", quest'album rimane senza ombra di dubbio il capolavoro assoluto degli Iron Maiden, che ancora oggi deliziano le nostre orecchie con album sempre di valore (a parte il periodo-scivolone in cui Dickinson lasciò la band e venne sostituito da Blaze Bayley, in cui si salvano solo una manciata di pezzi su due album interi).
Nel 2010 è atteso il quindicesimo (!!!) album in studio.
UP THE IRONS.

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